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L’ULTIMO PARADISO: Riccardo Scamarcio nell’intensità del suo ultimo film (Netflix)

L’ultimo paradiso, una storia drammatica di rivalsa sociale e amore.

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Dal 5 febbraio, su Netflix , il film L’ultimo paradiso di Rocco Ricciardulli, interpretato da Riccardo Scamarcio, che lo ha prodotto (Lebowski e Silver Productions)  e ha partecipato alla sceneggiatura, insieme allo stesso regista.

È una storia tratta da una lontana realtà, intensa e intensamente raccontata, nella quale viene ritratto il Sud com’era alla fine degli anni Cinquanta. Ottime l’ambientazione e la caratterizzazione dei personaggi. Non solo per la resa dei protagonisti, ma anche di tutti coloro che compongono questo mosaico meridionale: credibile e appassionato.

La storia drammatica del film

Siamo nel 1958 in un paesino del Sud che non viene nominato, ma che ha, come città più vicina, Matera. Il quarantenne Ciccio Paradiso (Riccardo Scamarcio), si dibatte tra due passioni: l’amore per Bianca (Gaia Bermani Amaral) e il desiderio di giustizia. Una grande voglia di libertà che potrebbe tradursi nella fuga verso il Nord insieme a lei. Ma il padre di Bianca, nonché proprietario di tutte le terre per cui Ciccio e gli altri braccianti sudano sangue, è l’odiosissimo Cumpà Schettino (Antonio Gerardi). Sempre nella parte del cattivo, Gerardi, ma è così adatto!

Ciccio è una mina vagante per il padrone, uno che mette il naso dove non deve. Per di più, è sposato e non potrebbe mai dare un futuro alla figlia. La tensione sale fino a conseguenze drammatiche, per tutti.

Ciccio Paradiso, innamorato e temerario

Ciccio vuole bene alla moglie Lucia (Valentina Cervi) e al figlioletto Rocchino, ma l’amore per Bianca è un’altra cosa. Si offende se qualcuno la definisce femmina, perché Bianca è la madonna, e quando ride se è notte fa uscire il sole. Un amore ricambiato, di completa fiducia e abbandono reciproci, tanto che lei non ha problemi a dirgli che quando lo vede sente il fuoco nella capa,  le tremano le gambe e non è più padrona di sé. Un amore che non pensa alle conseguenze degli incontri avventati, in luoghi pericolosissimi.

Un po’ sono i sensi, un po’ il carattere ribelle di Ciccio. Il viso di Scamarcio si fa strafottente e sornione, le espressioni che gli riescono meglio. Ciccio Paradiso è un dissacratore: in chiesa mette l’ostia in bocca come fosse una nocciolina, sfida davanti a tutti l’orrido campiere Don Luigi, laido come lo stesso Cumpà Schettino, e rischia la vita nei convegni amorosi vicino alla tenuta del nemico. Chi semina spine non può camminare scalzo, lo minaccia il padrone, ma lui insiste nelle provocazioni, mentre continua a sognare con Bianca un futuro lontano da lì, a Parigi, addirittura.  E ascoltano insieme le note struggenti della canzone di Trenet, Que reste til de nos amours.

Noi zappiamo la terra, e noi facciamo il prezzo”, sono frasi forti, che non possono scivolare così, senza conseguenze. Ciccio è coraggioso, ma non riesce a organizzare manifestazioni significative. Non c’è sciopero, non c’è la lotta di classe che vorremmo per riparare alle prevaricazioni. Solo il suo esporsi e un episodio di violenza ai danni di Don Luigi, che nulla cambia nello sfruttamento quotidiano dei contadini.

La seconda parte del film, inaspettata

Dopo una prima parte in cui la narrazione si avvicina a un film d’amore e d’anarchia, e la tensione non fa che salire, tutto cambia completamente con una e più sorprese  che ci lasciano col fiato sospeso. Nonostante il  ritmo rallenti, e la scena si sposti addirittura a Trieste: la vista del mare dal Molo Audace, le stradine strette della Città Vecchia, una fabbrica e non i soliti luoghi di sfruttamento negli uliveti del Sud. E nonostante questo Nord così estremo, e s’immagina emancipato, ora si alterni alla campagna che conosciamo. Ci piacerebbe dire di più, ma non possiamo, perché  l’irruzione del nuovo, che nuovo non è all’interno della storia, ma per noi sì, è un elemento fondamentale della trama e per la sorte  di tutti i personaggi.

L’ambientazione

Quasi sempre, però, L’ ultimo paradiso è inserito nel latifondo pugliese e nella sua splendida luminosità, quasi indifferente alle tragedie che vi si consumano. La fotografia di Gian Filippo Corticelli crea spazi esterni incontaminati; bellissime le inquadrature in cui la figura umana è ripresa in campi lunghi  mentre si avvicina o si allontana, ogni volta a decidere del suo destino. O quelle in cui la scena sembra richiamare il genere western, per gli sguardi minacciosi e l’incontro dei due rivali nel deserto silenzioso intorno.

Gli interni invece sono oscuri con una luce che viene solo dall’esterno. Dice il regista: “Le scenografie degli interni sono costruite con pochi elementi fortemente connotati ed evocativi. Oggetti simbolo di un mondo contadino , che raccontano la fatica e le difficoltà delle famiglie, oltre ai desideri trattenuti nel pudore”.

Nelle poche scene triestine, però, vediamo un oggetto che non c’entra nulla con la cultura contadina descritta fin qui, ma che la richiama. Un libro. La luna e i falò di Cesare Pavese. Guarda caso la storia di un ritorno.

I temi del film L’ultimo paradiso

Oltre all’amore e alla ricerca di giustizia, al desiderio di libertà, di affrancamento dalle condizioni miserevoli del Sud, e del sud di allora, un tema fortemente espresso nel film è proprio il conflitto tra l’andare e il rimanere, tra la volontà di scoprire il mondo e restare invece ancorati alle proprie radici. Chi riesce a partire, porterà con sé un’eterna nostalgia, lo stesso sradicamento che faceva dire a Pavese:  Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

L’ultimo paradiso inizia come una storia narrata tradizionalmente, i cui temi sono molto espliciti, e finisce aggiungendone un altro che si armonizza con quelli precedenti. In chiusura, la sfida del regista. L’ultima scena improntata a un realismo magico del tutto inatteso, ma che finalmente ci fa rilassare e  sorridere un po’.

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