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In Sala

Malavoglia

“Il film di Pasquale Scimeca è una trasposizione moderna del dramma verghiano. Dell’originale conserva i personaggi, le professioni, il crudele destino, ma non l’esito finale”.

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Il film di Pasquale Scimeca è una trasposizione moderna del dramma verghiano. Dell’originale conserva i personaggi, le professioni, il crudele destino che strappa la vita del padre e trascina la famiglia nell’indigenza e nella malattia. Alcuni personaggi assumono nuove connotazioni, come compare Alfio che è un clandestino tunisino, o don Michele che diventa un agente sotto copertura.

La messa in scena è articolata in una serie di quadri che richiamano un’impostazione di carattere teatrale, in cui i personaggi tendono verso le maschere, le azioni diventano accentuate e quasi mimate. Tra un quadro e l’altro, la mancanza di sequenze di raccordo che narrino con gradualità l’evoluzione della storia e dei personaggi produce un ritmo sincopato che trasforma le scene quasi in istallazioni autonome. La recitazione degli attori, molti dei quali non professionisti, manifesta un certa rigidità e assenza di partecipazione emotiva, quasi fossero corpi sottratti alla realtà e posti freddamente al servizio della mimica teatrale. L’intreccio narrativo risulta inutilmente elaborato nei punti in cui si distacca dall’originale, e perde vigore proprio quando tenta la strada dell’innovazione rispetto all’autore verista.

Il finale del film è drasticamente in antitesi con I malavoglia, perdendo l’epilogo disperato che negava a padron ‘Ntoni persino la soddisfazione di morire nella riacquistata casa del nespolo, in favore di un esito totalmente ottimista che vede tutti i membri della famiglia affermarsi e raggiungere perfino il successo. L’operazione di trasmutazione del cosiddetto pessimismo verghiano in un ottimismo moderno appare totalmente fuori tono e fuori da ogni giustificazione. Se da un lato Verga riusciva a cogliere e connotare la sofferenza umana di un paese travagliato, ma tuttavia in via di sviluppo, Scimeca non riesce a costruire una moderna lettura della sofferenza della società contemporanea, sebbene sia immersa in un paese in declino da oltre trent’anni. Il fattore che Scimeca coglie come leva per la sua visione ottimistica, ovvero la riattualizzazione della cultura tradizionale, è oltremodo fuorviante in quanto rischia di essere solo l’ennesima zavorra culturale che impedisce all’Italia, e al meridione in particolare, di emergere dalla palude del “sottosviluppo”.

La cifra della distanza tra il film e il romanzo forse è plasticamente sintetizzata nel tratteggio del vecchio padron ‘Ntoni che nell’opera letteraria, sul finire della sua vita, cita senza consapevolezza i proverbi di cui era a conoscenza, quasi a significare il tramonto di un’era e il collasso dei suoi valori, che pure non dovevano apparire così antiquati ai lettori di Verga; mentre nel film i proverbi del capostipite, sebbene quasi totalmente privi di una reale saggezza, vengono individuati come chiave di volta simbolica del successo. La sceneggiatura, che ha visto anche la collaborazione di Tonino Guerra, conserva il merito di essersi cimentata con lo sguardo degli ultimi della nostra società, la cui complessità rappresenta una sfida interpretativa non facile da vincere.

Pasquale D’Aiello

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