Nato simbolicamente nel 1989, il Trieste Film Festival è ormai al suo trentaduesimo anno. Non avrebbe potuto rinunciare all’edizione del 2021, ora che si ricorda il trentennale delle guerre balcaniche, di cui i vari paesi, chi più chi meno, portano ancora il segno. Come molte altre manifestazioni culturali di questi ultimi mesi, abbiamo seguito il festival sulla piattaforma on line. Un programma denso di film provenienti dall’Europa orientale, tra i quali spesso è stato difficile scegliere. Alcuni hanno già partecipato ad altri festival, altri sono del tutto inediti.
Bellissima la locandina della fotografa ungherese Marietta Varga, con le figure umane centrali, i colori così delicati su sfondo chiaro. Invitante, per un festival già ricco di suo: ventinove lungometraggi, diciannove documentari, sedici cortometraggi, venticinque eventi collaterali.
Noi di Taxidrivers abbiamo fatto una scelta, quella di privilegiare i lungometraggi in concorso. Speriamo di non esserci lasciati sfuggire qualcosa di particolarmente meritevole.
Li abbiamo suddivisi per argomento, anche se diversi temi attraversano le diverse storie, accomunate tutte dalla stessa malinconia di fondo.
Politica e società
BERLINER: (Romania) – Concorso lungometraggi
Il festival inizia con Berliner (La campagna) del regista rumeno Marian Crișan. Per contenuto e stile, il film segue il filone della new wave rumena: realismo minimalista da una parte, ironia che si fa satira, dall’altra. Quel titolo così strano lo si capisce dopo un po’. È riferito alla citazione di Kennedy in Germania: Ich bin ein Berliner. Qui è messa in bocca al politico Mocanu, che per volontà del suo partito capita nel collegio elettorale di Salonta, nella Romania occidentale, in piena campagna elettorale. Quando la sua macchina si ferma per un guasto, viene raccattato dal contadino Viorel, che con l’ospitalità tipicamente rumena, lo porta a casa sua, offrendogli da mangiare e da dormire. Mocanu gli si piazza in casa, insieme all’autista e al responsabile della sua elezione.
Da quel momento in poi, sfrutterà l’occasione, davanti alle telecamere e nelle foto sui social, per dichiararsi amico fraterno di Viorel, umile come lui. Mano sul cuore, in un populismo che, ahinoi, ci ricorda qualcosa, il politico promette a tutti. A Viorel addirittura un trattore nuovo! Veste la maglia della squadra locale, battezza un bambino, lavora con gli operai. Viorel, da parte sua, è irretito dalle solenni dichiarazioni pubbliche di amicizia, tanto da credere che Mocanu (in realtà indagato per corruzione, e anche questo non ci è nuovo!) sia il miglior politico al mondo e il suo partito il migliore dei partiti.
Divertente il suo intervento televisivo che, se pure diverso nei contenuti, ma uguale per assurdità, ci ricorda A est di Bucaret di Corneliu Porumboiu.
SUTEMOSE-In the dusk-Al crepuscolo(Lituania) – Concorso lungometraggi
Il crepuscolo di cui parla Šarūnas Bartas in questo film è quello dei partigiani lituani durante la seconda resistenza, negli anni dal 1946 al 1949. L’intensità della narrazione riguarda sia il gruppo di ribelli nella foresta, sia la vita familiare nella fattoria vicina. Dove la cupezza dell’occupazione sovietica si aggiunge alle scene di interni molto tristi per dinamiche affettive complesse, distacchi emotivi, vecchi rancori covati per tempi lunghi e mai più superati. Protagonisti il proprietario terriero Pilauga. la moglie (che, malata, si vede molto poco), la domestica e il figlio di Pilauga, Ute.
Le attenzioni del regista sono riservate soprattutto al ragazzo, ai suoi sguardi che si interrogano sul mondo, sulla politica, sulle ragioni del conflitto. Molti i suoi primi piani ma anche quelli degli altri, perché la resa della fatica fisica e dello sfinimento psicologico è affidata molto ai dettagli dei visi, alle rughe, alle espressioni. Il tutto amplificato dalle ombre che si depositano sulle persone e sulle cose, anche sui paesaggi, per un gioco sapiente di luci e di ombre, appunto. Perfette l’ambientazione nordica e temporale, che ci rende partecipi, lì ed allora, nonostante i tempi molto lunghi e i dialoghi essenziali.
Galaktika e Andomedes-Andromeda Galaxy, La Galassia di Andromeda (Kossovo) – Concorso lungometraggi
Dal Kossovo il film struggente della giovane More Raça. Il protagonista è il padre stesso della regista, nonché produttore del film, nella parte di un cinquantenne disoccupato (Shpëtim), vedovo, rimasto anche senza casa. La forza per non soccombere gli viene dalla figlia, Zana, per la quale affitterà una roulotte parcheggiata sotto la nuova moschea di Pristina. D’ora in poi dovrà prendersi cura di lei, perché l’orfanotrofio in cui ha vissuto finora, in crisi economica, non può più tenerla. More Raca dice di essere colpita dalle persone disperate per cui il lavoro normale è un lusso (come negli altri film del festival, Otac– Serbia – , come in Strah– Georgia -, tra quelli che abbiamo seguito). E che, nonostante tutto, non si arrendono.
Shpëtim passa le giornate da solo, prima cercando un lavoro, poi arredando la roulotte per Zana. Spesso lo vediamo in macchina, rifugio e barriera contro il mondo che lo respinge. I momenti con la figlia sono emotivamente splendidi, pur nelle difficoltà, che lui tenta di addolcire. Insieme cercano Andromeda nel cielo. A dirla con Oscar Wilde: “Siamo tutti nel fango ma alcuni di noi guardano le stelle”
OTAC: Father, Padre (Serbia) – Concorso lungometraggi
Al suo quarto film il regista, serbo Srdan Golubović ci racconta la storia struggente di un padre a cui il Centro dei servizi sociali toglie i figli, dopo il gesto disperato della moglie di darsi fuoco. La moglie per fortuna si salva, ma viene ricoverata nel reparto psichiatrico. Nikola lavora a giornata e, davvero, non può mantenere decentemente i suoi ragazzi. Scopre presto però che, orrore, il capo dei servizi sociali specula sull’affido dei bambini e che chi sa non parla per paura. Decide allora di partire a piedi per Belgrado, affrontare trecento chilometri per avere udienza al Ministero.
La parte centrale del film, il camminare disperato verso la speranza di una soluzione, è decisamente quella migliore del racconto. Fanno male al cuore la povertà di questa famiglia e la solitudine di un uomo che attraversa paesaggi desolati, belli come sono belle le inquadrature che li ritraggono. Ancora di più perché il regista dice di essersi ispirato ad una storia vera.
Acasă – My Home-Casa mia (Romania) – Concorso documentari
Il documentario del regista rumeno Radu Ciorniciuc, che ha già avuto parecchio successo in Europa, racconta della famiglia Enache che deve rinunciare alla libertà nella quale ha vissuto finora. Nove figli, che stanno crescendo al ritmo della natura nel delta di Bucarest a pochi passi dalla capitale. Né elettricità, né acqua corrente, né tanto meno una scuola da frequentare. In cambio, le giornate nei boschi a procurare il cibo e a rifugiarsi quando arrivano i servizi sociali, visti come i peggiori nemici. La zona viene destinata a parco nazionale e sono costretti a lasciarla, insieme alla capanna che è la loro casa (la casa del titolo). Si vede anche il principe Carlo che visita il parco, lui, ospite abituale della Romania, dove possiede alcune tenute rurali e dove passa spesso le vacanze. Ha anche lanciato una campagna per la tutela del patrimonio naturale rumeno.
Acasă – My Home è un film difficile da vedere perché non possiamo non interrogarci sul conflitto tra estrema libertà e regole sociali, tra diritti naturali e culturali, e su quanto sia giusto che i genitori decidano un futuro così estremo per i loro figli. E’ evidente anche il conflitto, non apertissimo come in passato, tra gli zingari e il popolo rumeno. Lo scrittore Konrad Bercovici ha detto che “La Romania senza gli zingari é inconcepibile, come l’arcobaleno senza i colori e la foresta senza gli uccelli”. Può darsi, ma se questo film vuole avere un effetto perturbante, ci è riuscito in pieno.
Strah– Fear – Paura (Bulgaria) Concorso lungometraggi
Nel presentare se stesso e il suo lavoro on line, in occasione del festival, il regista bulgaro Ivaylo Hristov non usa frasi di circostanza, bensì un tono spiritoso e disinvolto. Allo stesso umorismo è improntato tutto il film. A tratti, però, ci sono risvolti drammatici da farci temere una brutta conclusione, che invece è volutamente assurda. L’ultimo frammento, surreale. Secondo il regista, la via dell’assurdo è l’unica possibilità per oltrepassare la tragedia.
La paura del titolo è quella di tutti i personaggi. Svetla, un’insegnante vedova rimasta senza lavoro, burbera, in realtà dietro l’apparenza ha paura di tutto, ma trova il coraggio di ospitare a casa sua un africano incontrato nella foresta, di cui nessuno vuole la responsabilità. Tenero il rapporto tra lei e Bamba, la loro bella intesa, pur parlando ciascuno una lingua diversa. A lui, Svetla confessa le sue debolezze: “Sono stanca di avere paura”, e se pure non capisce le parole, lui l’abbraccia.
Gli abitanti del villaggio, invece, non avendo mai visto un nero, vogliono mandarlo via al più presto. Nella parte dei cattivi, la loro resa è parecchio grottesca. L’ambientazione è studiata per denunciare come gli uomini usino violenza anche nei confronti della natura, con quei palazzoni orrendi su una spiaggia splendida. Il bianco e nero utilizzato da Ivaylo Hristov non sfrutta i contrasti netti, ma preferisce giocare con le sfumature grigie, rilassanti, facendoci concentrare di più sui volti e sulle loro espressioni.
Storie psicologiche di personaggi in crisi identitaria
MOJ JUTARNJI SMETH: My mornig laughter, Le mie risate mattutine (Serbia) – Concorso lungometraggi
Moj jutarnji smeh, primo film del giovane regista serbo Marko Đorđević, ha creato promesse non mantenute nei contenuti, con il titolo tradotto malamente a livello internazionale in My Morning Laughter (Le mie risate mattutine in italiano). Per un’ora e mezza passata aspettiamo che sia mattina, quella giusta, quella in cui il protagonista si libererà delle ansie e possa davvero ridere un po’. In realtà, il primo sorriso di Dejan, ventottenne che vive con un padre sbagliato e una madre troppo presente, arriva solo a due terzi del film. Per il resto, l’atmosfera è piuttosto cupa, fatta di riprese ristrette, quasi esclusivamente in interni, tristi e soffocanti, come l’anima del protagonista. Che deve ancora crescere, affrontare esperienze come l’amore, soprattutto quello fisico, troppo differito e causa di grande disagio . Il suo disordine interiore è reso dalla postura sempre depressa, qualche movimento involontario del corpo, da scene essenziali e prolungate nella loro sobrietà. Dialoghi ridotti al minimo, mancanza di colonna sonora, niente che possa farci distrarre da una psicologia sofferente.
L’apparizione della collega Kaća è un bel sollievo, perché, come speriamo, riuscirà ad aiutarlo nella sua seconda nascita, quella sentimentale, e sessuale, finalmente. Però, diciamolo, la videocamera fissa su una porta chiusa per un tempo lunghissimo non è per forza prova di autorialità. A parte alcuni momenti come questo, in cui pensiamo che sia saltata la connessione a casa nostra, il film è onesto e sa trattare molto bene il problema degli errori genitoriali che ricadono su figli immaturi, soprattutto se unici. Nell’Europa dell’Est, come in quella occidentale.
Il regista iraniano Siamak Etemadi ambienta la vicenda ad Atene, che è la città in cui vive. Dà alla protagonista il nome della madre, un omaggio non da poco per come questa donna viene ritratta nel film. Pari e il marito, più anziano di lei e più imbranato, si ritrovano all’aeroporto in attesa del figlio Babak che non arriva. Gli accordi sono stati presi già tre mesi prima, non può essersene dimenticato! Ma non si vedono da ben due anni e durante questo distacco Babak ha preso una strada diversa, e misteriosa, da quella del bravo studente. Lo sperdimento della coppia nella capitale straniera è doloroso. Lui, avvisate le autorità, vorrebbe tornare a casa, lei no, non tornerà in Iran senza Babak. Con il suo inglese elementare, Pari vivrà avventure per lei impensabili (un po’ eccessive anche per noi, a dire il vero!).
Noi assistiamo alla sua trasformazione, mentre si scoprono mezze verità sul figlio (prima in ambienti anarchici, poi nel mondo degli homeless, poi in realtà sordide di droga e prostituzione), mentre Babak le si allontana e lei, ostinata, lo insegue. Negli incidenti di percorso, perde velo e chador e ci appare in tutta la sua bellezza. Se nella prima parte del film condivideva sempre l’inquadratura con il marito, poi gli sfugge, per essere sempre lei, da sola, al centro della scena. “Una storia di amore e nostalgia, di separazione e ricerca. Di rinascita”. (Siamak Etemadi)
JAK NAJDALEJ STAD– I never cry – Non piango mai (Polonia) – Concorso lungometraggi
Il regista polacco Piotr Domalewskicostruisce una storia di formazione nella quale la diciassettenne Ola deve farsi carico di una situazione più grande di lei. Morto il padre, emigrato in Irlanda, viene costretta dalla madre ad andare a recuperarne il corpo, da sola, con tutte le procedure burocratiche che ne conseguono, e le difficoltà economiche di partenza. Il padre è morto sul lavoro, ma l’assicurazione non paga e Ola non trova i soldi che lui le aveva promesso per l’acquisto della macchina al suo diciottesimo compleanno.
Il film tratta il tema del rapporto tra gli emigrati e le loro famiglie rimaste in patria, e di quanto questa lontananza si faccia nel tempo estraneità. Per farlo, scende sempre di più nell’intimità di Ola, che, rancorosa nei confronti del padre assente, scopre quanto poco lo conoscesse, fino ad assumersi la sua parte di responsabilità nell’essersi abituata al distacco. Film estremamente sobrio, in uno stile che richiama i fratelli Dardenne, e, come i film dei Dardenne, sa commuovere. “Io non piango mai”, dice Ola alla sua partenza per Dublino, ma noi, sì!
DASATSKISI – Beginning – L’inizio (Georgia), Concorso lungometraggi
Con uno stile tutto personale, Dea Kulumbegashvili, giovane regista georgiana, mette in scena la crisi identitaria di una donna, vissuta nelle rigide convenzioni religiose. Yana è la moglie di un uomo importante tra la comunità dei Testimoni di Genova nella cittadina di Lagodekhi, ai piedi della catena del Caucaso, al confine con l’Azerbaigian. La conversione è avvenuta insieme al matrimonio, a costo di rinunce significative, ed ora la vita di coppia e la sua fede sono fortemente in crisi. “Mi guardo allo specchio e vedo una sconosciuta che mi guarda“. È proprio la storia di un nuovo inizio che deve prima liberarsi della parte consistente di sé nella quale Yana non si riconosce, oltre al senso di appartenenza, messo fortemente in discussione.
Per farlo, Dea Kulumbegashvili non esita a spiazzare lo spettatore. Prima di tutto utilizzando sempre il fuori campo, anche quando due personaggi dialogano e noi ce li aspetteremmo nella stessa inquadratura o in un controcampo, più o meno serrato. Qui no: una o più persone occupano la scena e l’altra, non vista, continua a parlare. A creare tensione, e già nella prima parte del film c’è, a questo proposito, una scena piuttosto sgradevole. Oppure, altra fastidiosa incongruenza, i soggetti sono molto lontani (tanti i campi lunghi) ma le loro voci sono a noi vicine. Il montaggio è fatto di stacchi molto rigidi, e le inquadrature sono per lo più fisse. Alcune fisse e prolungate, aumentando i tempi di attesa.
Il film è stato pluripremiato al Festival di San Sebastian (miglior film/migliore regia/ migliore sceneggiatura/migliore attrice).
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