Parafrasando il titolo dell’universalmente noto testo di Primo Levi “Se questo è un uomo”, la regista Maya Sarfaty – che da molti anni voleva raccontare la tragica storia d’‘amore’ di cui era venuta a conoscenza fra una prigioniera di Auschwitz ed il suo carceriere nazista – ha proposto che il titolo italiano del suo bellissimo documentario “Love it was not”, fosse proprio “Se questo è amore”, mettendo subito in dubbio, con il ‘se’, la reale possibilità di provare un sentimento reciproco in una situazione fortemente sbilanciata come quella tra un’SS e una giovane ebrea deportata.
Già presentato in anteprima mondiale e vincitore della competizione israeliana del Festival Docaviv, “Love it was not” (che, in versione cortometraggio con il titolo “The Most Beautiful Woman”, ha fatto vincere alla Sarfaty lo Student Academy Award per il miglior documentario straniero nel 2016) ricostruisce, attraverso interviste, filmati d’archivio, fotografie e testimonianze, la relazione sentimentale fra Helena Citron, prigioniera ebrea deportata ad Auschwitz nel 1942, e Franz Wunsch, uno degli ufficiali di alto rango delle S.S. del campo di concentramento.
Sembra che lui l’abbia notata da subito, sentendola cantare per gli ufficiali tedeschi la canzone “Love it was not” (da cui il titolo originale) e si fosse innamorato perdutamente di lei e della sua voce magnetica: nonostante possa sembrare difficile da credere, in un rapporto tanto sbilanciato dove era in gioco la sopravvivenza, secondo parte dei testimoni intervistati nel documentario si trattava di amore ‘reciproco’ o comunque di un elemento di umanità in un luogo tanto disumano: malgrado il rischio di essere scoperti e giustiziati entrambi, i due portarono avanti la relazione proibita fino alla fine della guerra.
Helena, la sorella maggiore Roza ed alcune loro amiche beneficiarono, nel campo, della protezione di Franz che le assegnò a lavorare nella caserma “Kanada”, dove si smistavano gli effetti personali di coloro che venivano mandati nelle camere a gas, un luogo tanto orribile e psicologicamente spaventoso da sopportare quanto sicuro dal punto di vista della sopravvivenza. Purtroppo Helena non riuscì ad aiutare la sorella Roza nell’impresa di salvare i figli, che vennero mandati a morte: questo elemento creò per sempre un’incrinatura fra le due sorelle, tanto che ancora molto tempo dopo, negli anni Ottanta, invitate ad un programma televisivo israeliano per raccontare la loro storia (che fu udita da tutto il Paese, anche da Maya Sarfaty, ancora bambina, che ne rimase fin da allora colpita) le due donne discussero in diretta la vicenda drammatica della morte dei figli di Roza ed Helena ebbe un malore.
“Questa storia, nonostante le incredibili contraddizioni e dicotomie di cui è portatrice mi ha colpito ed affascinato fin da bambina – ha affermato la regista e sceneggiatrice Maya Sarfaty – quando la mia prima insegnante di teatro (la nipote di Helena Citron) mi affidò la storia delle due sorelle sopravvissute ad Auschwitz con la consapevolezza che un giorno avrei trovato il modo giusto di raccontarla. Cinque anni fa, siamo riusciti a metterci in contatto per la prima volta con la figlia di Franz che ci ha messo a disposizione i diari del padre: qui ho capito che il mezzo più adatto per raccontare la storia di Helena e Franz sarebbe stato il linguaggio documentaristico ed il mio compito quello di fornire un palcoscenico sul quale i veri protagonisti di questa storia avrebbero condiviso i loro ricordi, usando le loro stesse parole e descrivendo gli eventi che avevano segnato le loro vite.”
Negli anni ’60, Simon Wiesenthal rese noto alle autorità austriache che 70 ufficiali delle SS di Auschwitz vivevano liberamente nel paese, e solo quattro di questi furono portati in tribunale. Lo stesso Wursch fu processato nel 1972, trent’anni dopo i fatti ed Helena ricevette una lettere della moglie dell’ex-ufficiale nazista che le chiedeva di “restituire il favore”, testimoniando in favore di suo marito. Di fronte a questa decisione eticamente drammatica, Helena si trovò a compiere una scelta molto difficile, se aiutare o meno l’uomo che ad Auschwitz si era macchiato di crimini spaventosi – testimonianze di sopravvissuti ne riportano la crudeltà – salvando però la sua vita e quella dei suoi cari. Questa parte del racconto, che occupa l’ultima parte del film, è considerata da molti la più emozionante, rivelando da un lato la sincerità dei sentimenti di Helena e Roza, dall’altro la difficoltà di ottenere una condanna per crimini nazisti nell’ Austria di quell’epoca.
“Quello che inizialmente mi ha spinta a raccontare questa storia – continua la regista – è stata la coesistenza tra bene e male: Franz era un mostro sadico, ma anche un gentiluomo capace di amare e di provare compassione, aveva realizzato fotomontaggi immaginari, della vita che avrebbe avuto con Helena se non ci fosse stata la guerra. Helena non incarnava la classica immagine della vittima innocente, era una donna forte, con incredibili capacità di sopravvivenza che è riuscita se non proprio ad ‘amare’ il suo aguzzino, quantomeno a provare gratitudine per lui e perdonargli le terribili azioni commesse, per aver aiutato lei e sua sorella a salvarsi. Ma non avrebbe mai immaginato di proseguire un rapporto con lui al di fuori del campo. Si è venuta a creare, in questa vicenda, una zona grigia tra il bene e il male e questo mi ha dato molta forza come narratrice. Franz era un essere umano e come tale ambivalente: sappiamo che le atrocità nei campi di sterminio non sono state commesse da mostri, ma da esseri umani”.
Quella della Sarfaty è un’opera potente, dove le sette donne testimoni dirette, intervistate dalla regista dopo anni di ricerche su documenti e materiali audio e video negli archivi della Yad Vashem israeliana e della Shoah Foundation creata da Steven Spielberg, hanno mostrato la loro forza interiore, coraggio e disponibilità, ritornando indietro nel tempo e, come un coro greco, raccontando la storia di Franz ed Helena all’interno della tragedia rappresentata dal campo di concentramento.
La posizione della regista è comunque netta: Franz non è stato in alcun modo un ‘salvatore’ ed era colpevole dei suoi reati. Avrebbe dovuto essere condannato, se l’Austria dell’epoca non avesse preso posizioni differenti: il film solleva inevitabilmente questioni etiche che riguardano i protagonisti del passato, come individui e collettività, sforzandosi di sospendere il giudizio ed offrendo una visione umanizzata dell’orrore. Forse è per questo che il documentario, ben accolto in Israele, non è stato da tutti accettato in Austria.
“Se questo è amore”, realizzato in coproduzione fra Israel’s Yes Docu e Austria Langbein & Partner Media, utilizza una tecnica mai usata in precedenza per illustrare eventi drammatici e ricorre, per ricostruire le scene chiave, al fotomontaggio multistrato, utilizzando foto storiche e immagini d’archivio del tempo e del luogo in cui tutto è accaduto ed unendole in nuove composizioni girate meticolosamente su sfondo nero, una tecnica solitamente utilizzata per gli spot pubblicitari. Tale procedimento coniuga l’aspetto realistico con l’illustrazione, per creare un effetto 3D che riporti gli eventi in una prospettiva contemporanea, dando vita ad una narrazione dal ritmo avvincente.
Inoltre questo processo creativo, all’occhio dello spettatore, fa sembrare le immagini delle illustrazioni e non dei documenti storici fattuali: un linguaggio fotografico che ricalca lo svolgimento della storia, ed è ispirato ai fotomontaggi personali di Franz Wunsch, il quale creò immagini inquietanti per farle apparire come avrebbe volute vederle lui dopo la guerra. La regista prende in prestito questa tecnica e la trasforma in una sorta di palcoscenico 3D.
Wanted Cinema prosegue con la sua mission di distribuire opere indipendenti e di qualità: dal 27 gennaio il docu-film sarà disponibile sulle piattaforme Tvod (Wanted Zone, Iorestoinsala, MioCinema, Keaton, Chili, Cg Home Entertainment).