Mi piace raccontare storie di donne normali. Conversazione con Barbara Ronchi
Riproponiamo l'intervista fatta da Taxidrivers a Barbara Ronchi, vincitrice del David di Donatello 2023 come miglior attrice per 'Settembre'. L'attrice è anche in 'Rapito' di Marco Bellocchio in concorso a Cannes 76
Vincitrice del David di Donatello 2023 come Miglior attrice per Settembre , Barbara Ronchi era stata intervistata da noi di Taxidrivers in occasione dell’uscita di uno dei suoi recenti film , Padre Nostro.
L’attrice è anche in Rapito di Marco Bellocchio, in concorso a Cannes 76.
INTERVISTA A BARBARA RONCHI
Allieva di Carlo Cecchi Barbara Ronchi ha trovato nel cinema d’autore il palcoscenico adatto al suo talento.
Ti laurei all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, per poi frequentare il teatro con tre mentori come Carlo Cecchi, Valerio Binasco e Fausto Paravidino. Rispetto a ciò che è venuto dopo, che eredità ti ha lasciato questa formazione?
La mia formazione è assolutamente teatrale, perché tra l’altro pensavo che avrei fatto solo quello nella vita. Il cinema non era proprio nei miei pensieri: mi piaceva recitare davanti a un pubblico, assaporare l’adrenalina del teatro e Carlo Cecchi è stato un imprinting anche molto potente, direi, perché lui è assoluto. Per lui l’arte viene prima di tutto, anche della vita. Poi c’è stato Valerio, che è anche allievo diretto di Carlo, e quindi lavorare con lui è stata come una prosecuzione del percorso che avevamo fatto insieme. Il suo modo piratesco di fare teatro per me era ed è una guida. Paravidino era a sua volta allievo di Binasco; dunque, mi è sembrato di stare in famiglia. Con lui ci siamo conosciuti durante l’occupazione del teatro Valle, durante la quale aveva dato vita a una specie di laboratorio permanente, una sorta di bene comune, sia per gli attori che per la cittadinanza, perché eravamo occupati ma anche aperti. Ci siamo incontrati in quel frangente e da lì è iniziata una collaborazione proseguita con una tournée in Francia.
Partiamo da Padre Nostro che, dopo la vittoria a Venezia e il passaggio in sala, è appena uscito on demand. Nel film di Claudio Noce interpreti una donna realmente esistita e cioè la mamma del regista. Succedeva più o meno la stessa cosa in Fai Bei Sogni di Marco Bellocchio: in quel caso recitavi la parte della mamma di Massimo Gramellini, dal cui libro è stato tratto il film. Tutto questo per chiederti se la presenza di elementi reali preesistenti alla tua performance l’abbiano in qualche modo influenzata.
Per Padre nostro, né io né Claudio abbiamo sentito assolutamente l’esigenza di farmi incontrare sua mamma o riprodurre fedelmente la Gina reale. Penso che il cinema, e in generale le arti figurative, ti possano permettere di immaginare anche una versione diversa dalla realtà e io avevo Claudio che era il mio regista e autore della sceneggiatura, cioè l’artefice di una versione di essa. Forse questa era fedele all’originale; però mi rendevo conto che era anche una visione di come lui se la immaginava all’epoca, tenendo conto che parliamo di anni da lui non vissuti in prima persona. Dunque in assoluto è stato un lavoro di immaginazione che ho fatto attraverso i suoi occhi e i suoi racconti e dunque non una copia dell’originale.
Posso chiederti come è andata con Marco Bellocchio?
Con Bellocchio in maniera piuttosto simile. Ho incontrato Massimo Gramellini sul set. Lui mi ha raccontato bellissimi racconti di sua mamma che ora non c’è più. Mi ha parlato di quello che faceva, di com’era. Mi ha evocato il suo modo di essere. Ci teneva tantissimo che risultasse anche in maniera giocosa e divertente, perché lui se la ricordava così; non la voleva legare soltanto ai momenti tragici, ma voleva far emergere una gioia e una felicità che lui rimandava a sua madre. Questo Bellocchio l’ha riportato in maniera fedele e così anch’io. Dunque, questa donna è stata creata con luci e ombre e anche qui c’è stata una versione immaginaria dell’originale.
In entrambi i film interpreti una figura idealizzata. In particolare in Padre nostro su di te agiscono assieme il punto di vista del regista e del bambino. È una situazione particolare che non sempre capita.
È una figura concreta, nel senso che è una donna che ha vissuto quello che raccontiamo. Poi, il modo in cui l’ha fatto non è detto che sia andato esattamente come viene descritto in Padre nostro. A volte in un film c’è anche la libertà di far dire alla propria madre parole mai pronunciate. Questo è il punto di partenza che ha a che fare con l’immaginazione, poi c’è l’altra parte di realtà, quella uguale alla vita, in cui Gina conosce profondamente i doveri di suo marito e quindi i suoi. Per la grande stima verso Alfonso e il suo lavoro, accoglie tutto quello che ne consegue. Lei c’è sempre ed è questo il bello. Entrata in uno stato di guerriglia, lei diventa un soldato sia con se stessa che con figli e marito. In Gina però c’è anche la modernità di capire che c’è bisogno di uno psicologo per il bambino e che la famiglia non può arrivare dappertutto. Questo è reale. La modernità è una cosa che ha a che fare con la Gina in carne e ossa. Pur essendo figlia dei suoi tempi ha la lungimiranza di capire che bisogna farsi aiutare da qualcun altro, cosa che invece Alfonso nella sua maestosità non capisce. Non comprende di quanto si debba parlare per elaborare un lutto. Lei ha la prontezza di manifestare le sue paure ed invita anche gli altri a farlo. Possiamo essere eroi davanti allo stato, dice, ma poi in famiglia non è così.
La sua è una vera e propria psicologia di gruppo e la modernità sta anche nel farlo in anni in cui pochi osavano comportarsi così. Gina è una figura salvifica e ancor più lo è la Fiorella di Cosa sarà da te interpretata nel film di Francesco Bruni.
Beh, sì. Gina in Padre nostro è un po’ il collante di questa famiglia, quella che fa da tramite tra il padre e il figlio, prima che siano questi a trovare la loro strada e a favorire la stessa intimità che ha lei con i suoi figli. Fiorella ha invece un carattere assolutamente salvifico, anche se lei non lo sa, perché tutto si aspetterebbe tranne di essere salvifica per qualcuno. Lei che a mala pena riesce a prendersi cura di se stessa. Èsola, non ha il coraggio di cambiare vita perché, dice, non saprebbe dove andare: “Io andrei via ma dove. Non lo so, non so che fare”. È orfana, non ha amici e si percepisce che ha una difficoltà del vivere. Il fatto di avere questo aspetto salvifico per qualcuno di così importante nella sua vita in realtà le dà un senso, e in qualche modo la salva.
Quella di Fiorella è una presa di coscienza progressiva. A un certo punto è scombinata dalla rivelazione di avere un padre e un fratello, ma comunque procede nel suo percorso. Il cambiamento psicologico corrisponde a quello del suo aspetto esteriore. Il modo di vestire e la mise dei capelli diventano sempre più femminili; in generale la sua figura è più curata di quando la vediamo la prima volta. Tutto questo faceva parte della tua interpretazione?
Sì, perché in Fiorella bisognava lavorare sulla sua chiusura nei confronti del mondo e degli altri e sulla mancanza di fiducia verso il genere umano, generata dal fatto di essere stata abbandonata dal padre. Però, nel momento in cui in qualche modo si innamora di Bruno, rifiorisce e all’interno del film la vediamo trovare la sua strada. I suoi occhi si aprono e così il suo cuore. Trova una famiglia e dunque il suo posto nel mondo.
Parlavi di una ricostruzione in parte reale, in parte immaginata e questo mi porta a fare una considerazione che ricade anche sul modo di interpretare i personaggi. Voglio dire che se negli anni settanta la recitazione mimetica di Gian Maria Volonte’ era frutto della convinzione di poter intercettare la verità per intero, oggi in una società fluida e virtuale questo non è più possibile. Per cui la tendenza è quella di adottare metodi dove realtà e romanzo si mescolano con meno problematicità.
Penso che questo riguardi anche molto la necessità che ha un film di raccontare qualcosa. Ci sono opere che hanno bisogno di un mimetismo assoluto e penso a Il Traditore con Pierfrancesco Favino o ad Hammamet. Altre invece che di questa cosa non sentono l’esigenza; che da un personaggio non cercano il mimetismo, ma qualcosa che abbia anche a che fare con qualcosa di più immaginifico.
Ti faccio l’esempio di Buongiorno, notte rispetto a Il caso Moro. Dello stesso argomento, da una parte c’è la visione mimetica della realtà, dall’altra immaginifica.
Esatto, sì, perché dall’altra c’è una visione onirica e immaginata di come le cose potevano essere andate e quello, secondo me, ha anche il suo peso specifico, perché si tratta dell’occhio dell’autore e della sua interpretazione dei fatti. Entrambe hanno lo stesso identico valore. Penso si faccia molta fatica ad immaginare con un occhio artistico certe situazioni. Lo riesce a fare Bellocchio il cui sguardo e’ immaginifico, ma come lui ce ne sono pochi. In Padre nostro ci riesce anche Claudio Noce, spostando lo sguardo dal punto di vista storico. Nel film non si raccontano gli anni di piombo attraverso chi li ha vissuti in prima persona, ma per il tramite di un bambino che, in quanto tale, può immaginarseli come vuole lui. Dunque senza la responsabilità di rispettare la coerenza storica. Tutto questo al di là delle caratteristiche della nostra epoca, in cui, come dici, c’è molta più aridità a livello di fantasia artistica. Padre nostro in qualche modo ce lo fa vedere attraverso la sequenza della metro in cui la psicosi e la paura dell’altro riducono l’immaginazione, che invece il bambino continua ad avere.
In Padre nostro il ruolo di Gina ti dà la possibilità di mostrare un’ immagine di te più colorata, a partire dal biondo dei capelli e dalle tonalità dei vestiti, quando per esempio nel film di Bellocchio ti avevamo vista con una versione per così dire monocolore. A prima vista in Padre nostro sei irriconoscibile.
Questo mi fa molto piacere. In molti non mi hanno riconosciuta. Avere la possibilità di cambiare e diventare altro da me è una grandissima possibilità, soprattutto se posso farlo a stretto contatto con i reparti di trucco e costumi. Quello compiuto per trovare il personaggio di Gina e’ stato un percorso bello e importante. In lei ci sono riferimenti alla Gena Rowlands del film di John Cassavetes ed è stato molto bello portarla alla luce in un racconto al maschile. Inserirvi una bella femminilità secondo me è stato anche un punto di luce nel film.
Nel film di Bruni si intensifica una caratteristica già presente in altri tuoi lavori, ovvero la presenza del corpo. Insieme al viso, quest’ultimo è per gli attori qualcosa di cui dimenticarsi. Rispetto ai tuoi personaggi lo hai fatto spesso, mentre in Cosa Sarà questo entra prepotentemente in gioco. Succede perché trasmetti l’impaccio e la timidezza del personaggio attraverso una mancanza di controllo di tipo fisico. Gli oggetti ti cadono di mano, inciampi spesso e una volta sbatti anche la testa su un filo per stendere i panni. Nel processo di conoscenza del personaggio da parte dello spettatore il corpo e’ il vettore che spinge Fiorella fuori dalla sua invisibilità.
Nel caso di Fiorella mi piaceva il suo essere impacciata, la sua chiusura, il fatto di renderla quasi un po’ invisibile. Come hai detto, lei cade spesso nella maniera di una che non ha aderenza al terreno e questo mi piaceva. Trovare un corpo adatto al ruolo è la prima cosa da cui parto; poi da lì, se necessario, metto su vestiti e parrucche. È da come si muove il corpo che poi riesco a immaginare un personaggio.
In Padre nostro, le telefonate sono anche metafora del non detto e dunque della paura che attanaglia la famiglia del piccolo protagonista. In tale frangente ti rivolgi a tua madre dicendole “ io resisto sempre” . Mi sembra che la capacità di tenere testa alle difficoltà delle situazioni sia un tratto dominante delle tue figure femminili.
Nel caso di Gina è proprio come dici tu. In realtà da bambini, in momenti così critici e drammatici, ciò che ti rimane sono quelle chiacchierate in cucina, in cui di notte alzandoti vedevi da lontano il pianto di tua madre mentre parlava al telefono. In Padre nostro questo è quello che rimane di Gina quando fa quelle telefonate. Non ci sono altre persone esterne alla famiglia che vivono questo dramma e quindi queste telefonate è come il fuori che arriva dentro a chiederti come stai, perché all’interno della famiglia nessuno lo fa. Lei in quella telefonata cerca di mostrare anche alla madre quello che vedono gli altri di lei e cioè una donna forte, che ce la può fare, mentre poi vediamo il contrario. Gina vorrebbe cedere e dire che fa tutto paura, però se lo tiene dentro, perché in quel momento la sua funzione è quella di mantenere unita la famiglia e di non far vedere la sua paura.
Nella sequenza della telefonata, quella in cui sei ripresa in campo lungo, penso ci sia la sintesi del tuo talento, ma anche un po’ del mestiere dell’attore, che il più delle volte deve immaginare cose che non vede e non dire cose che vede. Nella scena in questione devi commentare con le parole, ma soprattutto con le espressioni del viso e con il pianto trattenuto, frasi, quelle di tua madre, che né tu, né lo spettatore avete modo di sentire. A te spetta il compito di comunicarci qualcosa che sei tu a creare e a rendere reale.
Lì c’è veramente il potere dell’immaginazione, perché tu sei al telefono da sola, mentre dall’altra parte della cornetta non c’è nessuno e non hai nemmeno qualcuno che ti dà le battute. In quel momento mi sono immaginata mia madre e ho pensato di avere una conversazione con lei. Ègiusto dire che in quella sequenza c’è veramente un po’ il mestiere dell’attore, perché lì fai finta che qualche cosa sia reale, che stia accadendo davvero e come d’incanto ti arrivano tutte le emozioni, come se tu le stessi vivendo veramente.
Come riesci a raggiungere l’equilibrio tra te stessa e i tuoi personaggi?
Io penso che per quanto noi attori possiamo nasconderci dietro un personaggio, pensando che sia un altro da te, poi alla fine, quando devi attingere a delle emozioni, lo fai attraverso cose che appartengono alla tua di vita, perché poi queste sono universali. Quando abbiamo paura, essa si manifesta nell’unico modo che conosciamo. Quando devo ricreare momenti drammatici o felici, io attingo dalla mie esperienze. Se devo parlare con un bambino, immagino che sia mio figlio; se devo emozionarmi per una perdita, penso a quella di un mio caro. Per questo, alla fine di una scena del genere, sei anche abbastanza spossato.
Arthur Penn diceva che il miglior modo di dirigere gli attori è far sì che siano loro ad arrivare alla giusta recitazione e che, per quanto riguarda il regista, deve solo limitarsi a togliere dalla strada gli ostacoli che possono impedirlo. Partendo da questo punto di vista, volevo che mi facessi un parallelo sul modo di dirigere di Bellocchio, Noce e Bruni.
Devo dire che tutti e tre seguono la regola del regista americano. Lo fanno per rispetto nei confronti dell’attore e per la fiducia nel lasciar fluire le cose, consentendo che ognuno arrivi con il suo modo all’emozione che deve provare. L’attore ci arriva da solo e se non riesce va bene comunque, perché vuol dire che ci ha provato e allora rimarrà impresso nel film quanto abbia resistito al piano o alla rabbia. Io penso che tutti e tre questi registi raggiungono quello che vogliono proprio perché lasciano fiducia totale.
Parlando dei tuoi partner, importantissimi attori e colleghi con cui hai diviso il set, da una parte c’è Favino che, come dicevamo, rilancia un tipo di interpretazione che aderisce mimeticamente alla realtà, dall’altra hai lavorato con Kim Rossi Stuart, che invece preferisce un approccio più introspettivo. Com’ è andata con loro sul set?
Sono entrambi due grandissimi professionisti, forse i più bravi che ci sono in questo momento in Italia. Ambedue prima di iniziare il film fanno una preparazione veramente incredibile sulla sceneggiatura, la conoscono benissimo. Pierfrancesco, per esempio, in Padre nostro secondo me è riuscito a prendere qualcosa degli uomini di quegli anni, essendo capace di racchiudere in sé un’ intera epoca. Per questo – e lo dico con grandissima ammirazione – la Coppa Volpi è assolutamente meritata. Kim ha fatto lo stesso con l’emozione di un dolore trattenuto, nella maniera in cui si mostra nella sequenza iniziale, quella in cui lo vediamo in primo piano mentre gli rasano i capelli. Èuna scena bellissima, in cui lui trattiene in uno sguardo perso nel vuoto tutto il dolore e la tragica desolazione di quel momento.
Anche il tuo lavoro in entrambi i film è stato notevole. Tu da dove parti per costruire i tuoi personaggi?
Dalla sceneggiatura e quindi dal racconto della storia. Prima di pensare al mio personaggio cerco di cogliere che cosa sta raccontando il film. Dopodiché capisco come il mio lavoro si può inserire all’interno della vicenda. Fatto questo, inizio considerando il corpo del personaggio: penso a come si muove, a come guarda gli altri e il mondo; se si vuole far vedere oppure no, se è un essere umano in apertura o chiusura. Poi mi concentro sulla mise dei capelli, sul suo modo di mangiare, di salutare e su cose più piccole che immagino mi potranno servire per costruire il mio mondo. Comincio a parlare con i reparti del trucco di come portare i capelli, di come devo essere truccata, se devo indossare un tale vestito, se il mio personaggio porta i tacchi, oppure no. Mi porto le scarpe di scena a casa e lì faccio le prove. Mi piace anche lavorare con le parrucche, ne ho molte a casa, me le provo da sola. Sono un po’ artigiana in questo. La preparazione di un film è il momento per me più entusiasmante.
Si può dire che fino a qui tu sia stata l’incarnazione di donne normali nel senso più dignitoso del termine. Tu reciti per sottrazione con una gestualità attenta e parsimoniosa.
Ti ringrazio perché mi sembra una bellissima definizione quella di essere normale. Credo che per raccontare una storia non ci sia bisogno di esagerare, ma piuttosto di entrare in punta di piedi sperando di lasciarvi un segno.
Attrici e film: a chi vanno le tue preferenze?
Io Gian Maria Volonté ce l’ho come santino sul comodino, perché per me è colui nel quale l’uomo normale e l’attore incredibile si incontrano in un credo politico molto forte. Lui ha tutto quello a cui ambisco. Ovviamente Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è uno dei miei riferimenti. Vederlo mi ha cambiato la vita, come del resto tutti i film di Volonté. Con lui non esiste nemmeno più la differenza tra attrice e attore. Quando incontri una cosa del genere non puoi che rimanerne coinvolta.
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