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C’è chi dice no

Qual’è l’avvenire della commedia italiana? “C’è chi dice di no” di Giambattista Avellino potrebbe costituire la traccia delle tendenze future. La recensione di Emanuele Protano.

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Max (Luca Argentero), Irma (Paola Cortellesi) e Samuele (Paolo Ruffini) sono tre ex compagni di classe che la vita ha separato da tempo. Trovatisi di nuovo assieme in occasione di una cena nostalgica coi vecchi colleghi universitari, la realtà che si pone loro davanti è sconfortante: mentre tutti i convenuti vantano affermazioni professionali, i tre devono ammettere le loro esistenze precarie, fatte di ottime qualità lavorative (sono rispettivamente giornalista, medico e ricercatore universitario) che non hanno però fruttato il tanto agognato posto fisso, perché soffiato loro – in più di un’occasione – dal raccomandato di turno. La condivisione della rabbia farà organizzare i tre, che tenteranno con maniere scorrette ma efficaci di riprendersi i posti lavorativi che meritano, lanciando una vera battaglia ai raccomandati del Paese.

Giambattista Avellino di palestra comica ne ha fatta molta, specialmente in televisione con quasi dieci anni di “Casa Vianello”. I risultati, artisticamente modesti ma di ottima visibilità, gli hanno permesso di procedere nella sua carriera andando a rivedere e migliorare la sua poetica, affermandosi cinematograficamente su scala nazionale con il duo Ficarra-Picone per il quale Avellino ha firmato la sceneggiatura di Nati stanchi, (2002) come pure di Il 7 e l’8 (2007) di cui è anche regista. Sulla scia di tali successi Avellino, autore brillante che spicca più per piglio registico che per capacità di di scrittura, per C’è chi dice no ha trovato il suo giusto complemento nello sceneggiatore Fabio Bonifacci, firma nota nella commedia italiana, fra cui ricordiamo È già ieri (2004), Si può fare (2008) e Diverso da chi? (2009). Il risultato del connubio si è rivelato infatti fruttuoso, anche oltre quello che distrattamente si potrebbe ravvisare in C’è chi dice no. L’opera di Avellino possiede difatti un respiro giovane, dinamico, ben congeniato, scritto, diretto e sufficientemente sociale, le cui mancanze filmiche devono essere riparametrate al target popolare e spesso non cinefilo a cui il film si rapporta.

C’è chi dice no è uno dei lavori si maggior spicco della stagione in corso del cinema popolare e di commedia italiano, che tanto sta facendo parlare di sé in questi periodi, dopo gli ottimi risultati raggiunti fin qui. La commedia popolare, specie se di impegno sociale, ha i suoi meriti – fra cui quello di arrivare dialetticamente meglio, aiutato dalla risata, alle criticità che investiga – ma anche i suoi limiti strutturali, fra cui, su tutti, l’inevitabile leggerezza e la latente superficialità degli stessi temi indagati. Ma se le premesse più volte gridate in molti luoghi critici per la nascita di una nuova commedia italiana fossero esatte, allora di C’è chi dice no potremmo ricordarci, fra molti anni, come momento cruciale di ricerca di topos e stilemi narrativi della nuova ondata artistica, cioè come uno fra i momenti più rivelatori di una commedia italiana che sta ancora calibrando i suoi nuovi profili poetici prima di divenire adulta, tendenza, questa, che l’opera di Avellino registra e manifesta con tutta la sua frastagliata, a tratti incoerente, e ancora imperfetta natura. Questo film, infatti, sta a metà strada fra diverse maniere di intendere la commedia nazionale, modi che potrebbero segnare in prospettiva una nuova maniera di interpretarla per una (ri)nascita ancora da legittimare e di cui ancora non si comprendono le impostazioni caratterizzanti. Da una parte, in C’è chi dice no, vi è il taglio engagé (valga il tema dei raccomandati e del merito come indizio di quanto si sta affermando) aggiornato in maniera più dinamica e brillante rispetto alle impostazioni di questo nuovo secolo di evidente disimpegno; presentando, al contempo, un secondo profilo più giullaresco, che denuncia tutti per non denunciar nessuno (e qui si rimanda a quell’utopia che connota l’opera che, troppo spesso, per amor di patria, preferisce sconfinare nella favola piuttosto che confrontarsi con i propri oneri), forse più desueto ma rivisitato anch’esso aggiungendo una seriosità apparente che ne occulta ancor più la sua tipica impalpabilità. C’è chi dice no ha quindi in sé le qualità per impostare una nuova maniera di intendere la risata (d’impegno?) del cinema italiano, che ha visto il pubblico esaltarsi per la militanza più radicale di Antonio Albanese in Qualunquemente (2011) o per quella più di pancia di Checco Zalone in Che bella giornata (2011), tenendo presente però che di simili vette non vive l’industria cinematografica, perennemente costretta a dimenarsi fra prodotti più modesti.

C’è chi dice no è dunque un papabile crocevia di impostazioni sociali e comiche futuribili della commedia italiana a venire, perché già presenti nell’oggetto filmico in questione, che alterna onesta e partecipata critica sociale all’altrettanto subdola e pericolosa cialtroneria di denuncia, offrendo un film che giace in un guado molto commerciale ma poco artistico. Quello che la nuova commedia italiana diverrà ancora è da capire, ma si può già affermare con sufficiente sicurezza che essa dovrà crearsi, se vuole esistere e resistere, uno spazio d’azione fra la più sterile evasione e la militanza politica; scegliendo se interpretare la risata fine a se stessa o tradurre brillantemente le grida di ingiustizia sociale che da tempo si levano su scala nazionale e non. Si capirà quindi se il cinema popolare e sociale dovrà propinarci – per esempio – dubbie lotte per un impiego lavorativo alto borghese mentre deride quelli più umili negandosi politicamente (i tre protagonisti di C’è chi dice no tremano all’idea di fare il ferroviere, l’estetista o l’inserviente presso un chiosco) o se sarà criticamente coerente con le idee che ne promuoveranno la creazione artistica, garantendone una maggior robustezza; per due profili entrambi presenti in C’è chi dice no che ne limitano le capacità, ma che lo rendono potenzialmente paradigmatico di un cinema a venire. Da noi l’augurio che Avellino abbracci il secondo percorso proposto, visto la sua sapienza ed efficacia comico-brillante.

Emanuele Protano

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