L’India oggi, fatta di molti servi e pochi padroni, di molta miseria e accentrata ricchezza, con la protezione del Buddha e la costante della corruzione. Dal mito di Ghandi viene da chiedersi: è davvero la più grande democrazia del mondo? “La Tigre Bianca” prova a darci una risposta.
La storia è quella di Balram che tramite una corrispondenza con il primo ministro cinese racconta l’India attraverso la sua vita. Balram è un giovane di campagna che vuole emanciparsi, da povero, diviene servitore, sceglie il suo padrone, Ashok, figlio minore di un uomo molto potente e poco onesto. Parte da qui il racconto della sua ascesa nel diventare un imprenditore di successo nella Silicon Valley indiana, Bangalore. Balram Halwai, anche voce narrante del film, racconta la sua esistenza, il suo paese e cita una nuova alleanza: “l’India e la Cina sono il futuro”, i nuovi padroni saranno “L’uomo giallo e l’uomo nero” che spodesteranno il padrone del passato, l’uomo bianco, di un occidente ormai spacciato, al tramonto, spezzato dalla “sodomia, l’uso dei cellulari e l’abuso di droghe”.
La scalata sociale
L’epopea della scalata sociale, della lotta di classe, del rapporto tra schiavo e padrone, in una terra che non ha acqua potabile, che stenta a costruire infrastrutture, priva di ordine e di igiene pubblica, dove un uomo medio non conosce la cortesia. Una vera e propria giungla, dove Balram è pronto a tutto per diventare una Tigre Bianca, un animale mitico di una terra gloriosa, il più raro animale nella giungla, quell’animale che si mostra solo una volta in una generazione.
La situazione politica è quella rappresentata da “La grande socialista”, nuovo riferimento del popolo indiano che si ribella ai possidenti, una figura di progressismo non esente da qualche impurità. La leader politica inneggia alla missione per un paese che verrà, dove anche i bambini poveri dovrebbero poter diventare il primo ministro indiano. Ma, per farvi un esempio, è anche quell’India moderna, “la più grande democrazia del mondo”, dove passiamo davanti al monumento al Mahatma Gandhi dopo aver corrotto un Ministro.
“La Tigre Bianca” è il riadattamento, del best-seller dell’autore indiano Aravind Adiga, scritto e diretto da Ramin Bahrani che gira in India dopo le produzioni americane del validissimo “99 Homes” e il recente intermezzo per la TV(HBO) di “Fahrenheit 451”. Per questa produzione originale Netflix, realizza un film molto ben diretto, che sarebbe stato bello vedere al Cinema, con un ritmo forte, incalzante fin dall’inizio, nel rimbalzo del protagonista fra due città simbolo dell’India, Dehli e Bangalore e la campagna indiana.
Quello applicato da Bahrani è uno stile molto americano, montaggio serrato, musica, passaggi da videoclip e velocità quasi da action drama. Poi proprio la bellezza delle inquadrature, insieme ai paesaggi che trovano più di una cartolina, costituiscono quasi uno stile pop nel film. Inevitabili i rimandi un po’ alla Mumbai di “The Millionaire”, anche se qui c’è più campagna oltre agli “slum” della metropoli. La scalata sociale poi è più poderosa, sporca e malavitosa: Balram sceglie il suo padrone, “perché un servitore deve poter scegliere la persona da servire, il padrone adatto per lui, il suo ‘agnello'”: qui c’è una contraddizione che caratterizza più che mai la “lirica” del film.
La verità sull’India
Bahrani ci fa capire esplicitamente che vuole raccontare la verità sull’India attraverso la storia della vita di Balram. Lo fa attraverso il racconto, “testamento”, che il suo protagonista porge al Primo Ministro cinese, ma che lo stesso Bahrani in un certo senso lascia allo spettatore. Questa è una scelta molto audace, missione che fin da subito rende il suo compito piuttosto complesso. Ma tuttavia in tutto lo svolgersi del film si difende bene. Bahrani sceglie uno sguardo oggettivo anche se spettacolare, dissacrante con un pizzico di sarcasmo, ma sostanzialmente cupo. C’è un po’ di commedia ma soprattutto c’è il drammatico. Il suo è uno sguardo, se vogliamo, anche spietato sulla condizione della povertà, nel raccontare l’antitesi della “democrazia più grande del mondo” che schiaccia come scarafaggi i suoi sudditi. Lo denuncia col suo narratore che parla proprio di “una stia per polli”, uomini intrappolati dalla ricchezza di pochi, dove o mangi o vieni mangiato.
Le contraddizioni di un uomo e di un Paese
Bahrani potremmo dire che è “senza filtri” nel raccontare queste contraddizioni. E si serve del suo emblematico protagonista, talvolta in modo anche troppo didascalico ma tuttavia efficace, che per riuscire nella sua missione, ammette il suo carattere fatto di opposti. Deve essere al contempo onesto e corrotto, subdolo e sincero, cinico e credente. L’imprenditore indiano deve essere così. C’è la contrapposizione nel protagonista, come c’è anche nel suo Paese, che lui stesso rappresenta. L’India è un paese di luce e di tenebre, due Paesi in uno, è difficile per un uomo essere libero in India, essere poveri “nella più grande democrazia del mondo” è un grosso problema.
In queste dicotomie, si fanno le virtù e le coerenze del film di Bahrani. Lui palesa ancora una volta le tematiche che gli stanno a cuore, ha dimostrato nella sua cinematografia, seppur giovane, di saperle trattare con stili diversi e di mantenerne l’autenticità, un pregio non da poco. Il suo film non perde mai il suo incedere, i suoi personaggi sono sempre credibili, nel caratterizzare l’orlo di un confine fra modello indiano e modello americano. Questo è un film che può andare bene in entrambi i fronti. Con questi elementi non possiamo che confermare che il giovane regista iraniano naturalizzato statunitense, ha dimostrato ancora una volta la sua sapiente cifra stilistica e poetica, annoverandosi fra gli autori “giovani” più interessanti del contemporaneo.
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