Prodotto da Lucky Red e distribuito on demand su Prime Video La stanza di Stefano Lodovichi è un thriller psicologico con venature horror che racconta gli inferni famigliari attraverso un triangolo edipico autodistruttivo
La stanza si apre nel bel mezzo dell’azione. Se è chiaro che Stella si sta per suicidare, la forma delle immagini sembra volerci dire dell’altro. In generale nel film esiste una tensione tra le azioni dei personaggi e le informazioni presenti all’interno del quadro. Nella sequenza in questione a depotenziare lo sguardo rispetto alla realtà delle immagini è la sproporzione tra la figura di Stella e la cornice della finestra che la contiene. In campo lungo quest’ultima appare di una grandezza smisurata per essere reale. A questo si aggiunge il pallore eccessivo della ragazza e la trasparenza virginale dell’abito da sposa: tutti particolari che fanno di Stella la protagonista di un mondo fantasmatico.
Fantasmatico è la giusta definizione. Quella iniziale è un’immagine molto densa, perché ricca di elementi che fin dalla prima inquadratura raccontano tutto quello che è il film. La scena è ricca di dettagli, di piccole lettere che vanno a formare parole, che formano un linguaggio e un codice preciso. Come dici, ci sono in effetti tanti elementi più o meno nascosti che vanno anche uno contro l’altro, ma che si uniscono per significare un personaggio tormentato e molto scisso internamente anche a livello identitario. Il fatto stesso che sia vestita da sposa è di per sé latore di due significati: della scelta di uccidersi, schiacciata da un ruolo, e allo stesso tempo per punire chi vedrà il suo cadavere, ricordandogli che forse come sposa si è uccisa per colpa sua.
Il film procede in due direzione. La prima, quella più evidente, è relativa al racconto di genere e in questo caso l’home invasion a cui La Stanza appartiene per struttura narrativa. L’altra invece è la trasposizione di un’idea, di un sentimento, di una emozione, di un senso di colpa declinati in chiave surreale, grottesca e anche horror.
Certamente. La stanza è stato scritto come se fosse una costellazione di piccoli elementi, di piccoli indizi, destinati a legarsi al percorso compiuto da Giulio nel momento in cui entra nella casa di Stella. Dal primo momento il suo costante pensiero è quello di mettere alla prova la madre, anche andando a tentoni, perché essere di fronte alla donna che ha cambiato la sua vita lasciandolo solo e senza risposte non può farlo rimanere indifferente. Nel momento in cui lui mette piede nell’edificio, riceviamo tanti piccoli segnali che sembrano strani e stonati ma che lo sono solo in apparenza, come il comportamento di Stella destinato a trovare coerenza nel proseguo della storia mentre all’inizio ci si chiede perché faccia entrare quella persona, perché di tanto in tanto accetti di relazionarvisi, nonostante la sua stranezza e ambiguità e direi anche il suo essere inquietante.
A proposito di segni, uno molto importante è quello di matrice hitchookiana che rimanda a Psycho, con il buco nella parete da cui Giulio guarda cosa succede nella stanza attigua alla sua. Il fatto che verso la fine del film ci mostri la stessa azione, compiuta però da Stella, rimanda al duplice punto di vista del film, che è di entrambi i personaggi.
Mi fa piacere che tu abbia trovato questo tipo di relazione, perché il film è costruito attraverso molteplici relazioni di singoli elementi. Quando, per esempio, sono seduti a tavola durante la tortura dietro a Stella, c’è un enorme crepa sulla parete: tutta la casa è stata costruita con un organicità mai realmente precisa, mai realmente simmetrica se non nella prima inquadratura, in cui vediamo la finestra aperta sull’esterno. Per il resto tutte le pareti sono storte, inclinate, rotte, perché l’idea era quella di fare di una casa siffatta il corrispettivo di una famiglia smontata, totalmente incrinata, capace di resistere per quanto impolverata, per quanto addormentata ormai alle intemperie del tempo. Come tutte le famiglie e come in tutti i rapporti, ci sono alti e bassi, ci sono problemi. Ho cercato di riflettere questa dimensione sulla struttura della casa. Mi sono detto ok, immaginiamo terremoti, alluvioni, perché la famiglia ha dovuto sperimentare quello.
Come nella messa in scena di un film di Tim Burton, anche in quella de La stanza gli aspetti grafici sono prevalenti. Da una parte danno vita a una precisa e peculiare estetica, dall’altra fornisco un senso legato strettamente alla dimensione interiore dei personaggi.
È giusto, è perfetto, è così. Nel mio metodo di lavoro c’è sempre un’estrema dedizione agli argomenti che deve essere in qualche modo sovrana. Nel momento in cui si delinea il tema di un racconto, questo deve essere declinato in ogni aspetto del film, per poi arrivare allo spettatore. Il mio lavoro è quello di trasformare un’idea, un tema, trovando il linguaggio migliore, le parole più adatte, il tipo di sfumature, la musicalità, le sonorità e i colori capaci di raccontare la specificità del progetto. In questo caso è tutto studiato per dirti che c’è qualcosa di storto, di faticoso, di doloroso: una serie di cicatrici destinate a ripercuotersi una dopo l’altra sui personaggi. Ferite figlie del tempo, come quelle incise sul corpo di Giulio, ognuna delle quali corrispondenti a un compleanno, a un anno e quindi a una scansione temporale del suo dolore. Nella camera da letto di Stella, per esempio, dove c’è la tortura finale e la morte di Edoardo, c’è anche un quadro di una Tigre, le cui striature, i tagli scuri e neri in qualche modo mi ricordavano Giulio.
Tutto questo viene ribadito anche da un altro elemento fondamentale della storia, che è quello della relazione tra l’album fotografico e i protagonisti. Dicevamo degli aspetti grafici e della corrispondenza tra estetica e contenuti. Le fotografie scattate da Giulio in Giappone si legano indissolubilmente al ricordo della madre, al suo legame con lei. Ancora un elemento accessorio all’interno del quadro diventa significante delle relazioni tra i protagonisti.
Certo, il Giappone è in qualche modo il sogno di Stella, che il figlio ha portato avanti in sua vece. Allo stesso tempo è la condivisione infantile di un bambino, simile a quella del gatto che porta al padrone l’uccellino per farglielo vedere. In quel momento del film Giulio è il bambino che fa un disegno e vuole condividerlo con la madre.
Si tratta di un particolare del tutto coerente con la costruzione de La stanza. Il segno grafico ed estetico diventa sostanziale del legame madre e figlio. Una simbiosi di elementi presente lungo tutto il film.
Come ti ho detto prima è tutto ai limiti della follia, estremamente tematico e coerente, sempre annodato.
La stanza è attraversato da linee e geometrie che si stagliano sullo sfondo dell’immagine, venendo spesso in primo piano per partecipare a un determinato stato d’animo, il più delle volte per diversificarlo dall’apparenza dell’immagine, trasformando la violenza in una richiesta d’amore. Specchi e finestre sono spesso incorniciati all’interno di architetture Art Deco.
Certamente, perché ogni elemento, se presente, deve avere un significato, concorrendo assieme agli altri a costruire un unico messaggio. Gli elementi riflettenti ovviamente ti raccontano quello. Tu hai iniziato l’intervista parlando di fantasmatica presenza. Fantasmi, morti, specchi che vengono coperti e presenze che non ci sono più, è un po’ questa la storia: a entrarci è tutto quello che non c’è, il non detto tra genitori e figli. Questo rappresenta la casa nel suo essere storta, schiacciata, sporca, con i vetri mai puliti, sporchi a tal punto da non fatti vedere cose c’è fuori. Non possiamo guardare oltre, perché questa è una storia di famiglia e del suo stare là dentro: il mondo fuori è presente nel costante rumore della pioggia che schiaccia e comprime l’esistenza dei personaggi. In costante coerenza con tutti gli elementi, con la tavolozza di colori che ho a disposizione e che è legata alla storia.
Tra l’altro utilizzi il campo lungo e le profondità di campo in maniera narrativa, per questo voglio chiederti di queste due scene. Nella prima, Stella è già seduta al tavolo per iniziare a mangiare mentre Giulio è in piedi, un po’ distante da lei e più vicino al nostro punto di vista. Quello che mi ha colpito è la scarto tra la figura minuscola della donna e quella smisurata del suo ospite. È come se questa differenza volesse segnalare la predominanza dell’uno sull’altra. Lo stesso succede nella seconda, ma a parti inverse, nel senso che il primo piano del personaggio di Edoardo Pesce è sfocato, mentre la figura di Giulio, pur rimanendo sullo sfondo, è nitida e visibile.
È normale. La profondità di campo è un elemento con il quale gioco molto spesso, perché ogni ottica ha un significato e, più profondità di campo hai, più hai la possibilità di vederci, di capire e di sapere quello che guardi nella storia in cui guardi. Questa è una vicenda che di largo non ha tantissimo: c’è sempre una certa distanza, sempre qualcosa fuori fuoco, perché comunque prima della fine non si può comprendere del tutto la realtà della vicenda. Non a caso nel finale le inquadrature sono più larghe; ad esempio, c’è una corrispondenza: l’aumento di luce all’interno della casa e l’uso di ottiche più ampie. Le sfocature si riducono, la profondità di campo si allarga perché Stella ha compreso qualcosa di più. Con la speranza, l’inquadratura si allarga a partire da quando lei entra nella camera del figlio ed entrambi si rifugiano nella casetta di cartone: quando escono fuori, c’è un campo lungo nel corridoio con il modellino di dinosauro per terra. Da lì scendiamo piano di sotto e per la prima volta è una panoramica a rendere tutto più nitido: nella cucina lo sguardo sulle cose è oggettivo; a terra c’è del sangue a indicare che qualcosa è successo. Le foto sono sul tavolo, dunque la realtà è quella. Da quella non si scappa e l’ultima inquadratura su Stella sta a significare che è lei la protagonista, quella che ha fatto un passo, un piccolo passo in avanti.
Nel primo dei due campi lungi la scenografia mette insieme oggetti diversissimi, per stile epoca e funzione. Vediamo lampade antiche a fianco di uno schermo da computer, a suggerire come in altri casi una sospensione temporale e una dimensione interiore della vicenda, legittimata dalla stratificazione di passato e presente all’interno delle medesime inquadrature. Mi sembra che tu abbia lavorato molto alla scenografia e alla disposizione degli oggetti.
Sì moltissimo. Il copione aveva più o meno quindici pagine in più dedicate alle descrizioni interne alle scene, con descrizioni degli ambienti, delle luci, dei colori, del tipo di carte da parati rovinate dalle quali trasparivano grafiche e scritte. Da questo punto di vista è stato fatto un grandissimo lavoro già nella costruzione e punteggiatura delle atmosfere e su come doveva essere questa casa. Con l’arrivo dello scenografo Max Sturiale e dell’art director Adriana Cattaneo, si è delineata e ha preso vita la possibilità di fare una casa come questa, anche perché non ho cercato un’abitazione reale, ma l’ho fatta come l’avevo pensata.
La stanza, dal punto di vista narrativo, mette in scena un triangolo edipico, in cui a livello psicanalitico queste tre figure archetipiche interpretano dei personaggi come quelli del film. Si palesa la gelosia del padre rispetto al rapporto tra madre e figlio e l’inevitabile uccisione del genitore da parte del figlio.
Sì, ci sono molte cose. C’è Edipo, c’è come hai detto questo triangolo archetipico, c’è la gelosia del figlio verso il padre. Una cosa che mi ha molto affascinato è stata raccontare Giulio come un ragazzino cresciuto male. Pur diventando adulto, rimane bambino e come tale non riesce ad avere uno sguardo oggettivo sulle cose, una visione oggettiva del rapporto con i genitori. La sua è una rappresentazione molto manichea e molto estrema. I genitori sono colpevoli: in questo caso il padreè colpevole, mentre la madre è vittima. Per salvare quest’ultima e se stesso deve uccidere il padre. È basilare e non ci sono sfumature adulte.
Non per niente il film è attraversato da una forte componente di Eros, e soprattutto Thanatos, che è parte integrante del rapporto madre e figlio.
Certo, come pure è parte integrante della vita stessa. Non si può prescindere da essa. La morte di un genitore è un elemento che ti fa crescere, ma questo è pure alla base della scrittura. In essa per esempio per diventare adulto devi uccidere tuo padre e il tuo mentore. Sono riuscito a fare questo film che avevo iniziato a scrivere tre anni fa solo dopo la morte di mia madre, accaduta un anno fa. Dunque, in questo percorso, nel quale la scrittura del progetto è cambiata tantissimo, sono riuscito a vedere questa storia da un punto di vista differente, probabilmente digerendo il dolore e le incomprensioni e crescendo dal punto di vista umano.
Il fascino di un film come La stanza è che rimane comunque un oggetto inafferrabile per lo spettatore chiamato a completare lui la storia dei suoi significati Fermo restando che il finale mette in scena il superamento di una crisi. Non a caso vediamo Stella vestita di nero, consapevole e disposta ad elaborare il lutto.
Giusto, anche perché l’unico modo che si ha per crescere è quello di confrontarsi con la morte, confrontarsi con lucidità sui problemi, da un certo punto di vista semplicemente con il dire le cose, perché molto spesso è il non detto che crea i mostri. E’ semplice mandare a quel paese le persone, odiarle e offenderle, ma è così complesso dire ti amo o ti voglio bene a una persona cara. Il non detto crea traumi e difficoltà, acuisce spazio e distanze in cui poi si annidano i mostri. Con la scrittura fatta assieme a Francesco Agostini, l’idea di verosimiglianza si riferiva alla creazione di una plausibilità interna alla nostra storia, perciò dal primo minuto tu sei preso per mano da Stella sul bordo di quella finestra, entri dentro questa casa e accetti di seguirla nella sua vicenda. Nella nostra storia devi credere di amare i personaggi e il loro percorso senza farti portar via dalla verità della strada, dalla verità oltre la finestra che è quella delle regole. Ciò che ci interessava era il rapporto interno dei personaggi: l’amore, i sentimenti e le passioni; la commozione e la catarsi finale, che è una cosa cui io credo molto-
Uno degli effetti della pandemia è stato quello di cancellare il rimosso della morte ricollocandola al centro delle liturgie sociali. In questo il tuo film entra in dialettica con la realtà, aiutandoci a fare i conti con essa, suggerendoci i mezzi per riuscire a farlo.
Sono totalmente d’accordo! Siamo in un periodo di grandi cambiamenti, non sapendo dove ci porteranno. Di certo c’è la verifica divivere in una società fallimentare. Mi auguro il meglio, ma ho la sensazione che sarà difficile, perché come la mia casa anche lo spazio pubblico è un luogo della perdizione, dove il loto crea distanza e ti fa addormentare. Mi sembra che la gente preferisca farsi trasportare senza farsi domande, senza realmente mettersi in gioco, senza fare critica su se stessa. Questo è il mio grande timore. Mi auguro che non sarà così e che l’esperienza ci faccia imparare qualcosa.
Le interpretazioni sono veramente performanti, perché gli attori sono chiamati a un tour de force non solo interpretativo, ma anche fisico. Da una parte devono farsi portatori del senso di minaccia che incombe su di loro, dall’altra lo devono fare come se ignorassero la ragione del loro tormento e della loro follia.
Li amo tutti alla follia, perché, come hai detto, è stata una prova fisicamente estenuante. In particolare ha costretto Camilla Filippi e Guido Caprino a confrontarsi in profondità con il loro rimosso, anche perché i bravi interpreti attingono al personale: quando piangono non lo fanno come conseguenza di una procedura tecnica, ma perché ripensano a qualcosa che li distrugge. In questo caso il tipo di performance che hanno fatto è qualcosa di affascinante. Edoardo Pesce ha il ruolo più piccolo, ma è meraviglioso come vi si sia dedicato senza tirar via ma mettendosi in gioco, suonando note che secondo me non aveva mai toccato. Probabilmente è arrivato sul set forte anche dell’esperienza del confronto con Alberto Sordi, perché l’esempio che avevamo fatto era quello di lavorare sui personaggi della commedia all’italiana e in particolare su quelli un po’ vili, meschini e avidi, che in qualche modo rappresentano molto bene un certo tipo di italiano post anni sessanta, ma che comunque è sempre dentro di noi perché siamo i figli di quella generazione. Con la sua prorompente fisicità, con quella facilità di giocare e di essere in qualche modo gigione che gli riesce molto naturale, Edoardo ha creato un Sandro veramente viscido e umanissimo e dunque quello che mi serviva. Guido ha fatto un lavoro molto particolare perché, applicando il metodo, è entrato nel personaggio senza più uscirvi fini alla fine della riprese. Un conto è entrare dentro un personaggio da commedia, un altro è esserlo sempre in un ruolo come quello di Giulio che ha mille identità ed è distruttivo e violento. Quando lavoravamo insieme, tra i vari esempi che gli facevo, c’erano i quadri dipinti di Francis Bacon e i suoi ritrattidall’identità indefinita. Questo corrispettivo lo trovavo anche in un personaggio del Vangelo che si chiama Legione, che Cristo incontra e che è impossessato da decine di demoni. Questa cosa mi piaceva molto e alla fine l’abbiamo trasformata. Volevo un Giulio cresciuto in modo irrisolto, come se fosse stato allevato in una scatola troppo piccola che l’ha reso storto e senza alcuna risposta. Le sue tante identità Guido le ha riadattate e modificate diversificando la voce. Lui ne ha di differenti e questa cosa è meravigliosa. La caratteristica più bella del suo personaggio. Per Camilla/Stella è stato un lavoro più complesso degli altri, perché il suo è un personaggio che preso sul punto del suicidio si porta per forza con sé una grande depressione, figlia della fatica di continuare a vivere. Con lei il lavoro è stato quello di cercare di creare il personaggio come se fosse una tossica. La sua era la dipendenza da Sandro. Una volta agganciata a quella dipendenza, Camilla l’ha sviluppata in modo naturale. La bugia iniziale di Giulio è di per sé la chiave che fa capire quanto tale subordinazione psicologica sia profonda e radicata lei.
Non la fa più ragionare impedendole di riconoscere la bugia di Giulio.
Certamente. Da lì il percorso di Giulio, al quale non basta uccidere il padre perché serve anche che la madre capisca delle cose. Partendo da questo, a Camilla ho chiesto di aprirsi sempre un po’ di più, in un modo profondo intimo e materno, Con l’altro sceneggiatore mi sono chiesto se fossi riuscito a riconoscere un figlio proveniente dal futuro. Per esempio, io ne In fondo al bosco, il mio secondo film, avevo scritto che di fronte al ritorno del figlio scomparso la madre diceva di non riconoscerne sguardo e odore. Senza rendermene conto, questi sono elementi che ho portato in questo film. Solo ora me ne accorgo, ma è questa l’essenza del legame tra genitore e figlio. E questo spinge Stella a giustificare comportamenti che poi la portano piano piano a rendersi conto di aiutare in qualche maniera il figlio.
L’arco narrativo del film potrebbe essere in estrema sintesi il percorso che porta una madre ad abbracciare il figlio, perché è quello che manca a Giulio.
È quello che ti dicevo prima a proposito della difficoltà di dire ti amo e ti voglio bene alle persone care. Pensa quanto ci manca un abbraccio oggi che non lo possiamo fare.
Per concludere la nostra conversazione, la domanda sul cinema che ti piace come spettatore e ti ispira come regista.
Il grande cinema di intrattenimento americano, soprattutto quello di avventura. Sono cresciuto con mia madre che mi faceva guardare la commedia all’italiana e mio padre che mi portava a vedere i film d’azione americani degli anni settanta e ottanta, quelli con Stallone e Schwarzenegger. Poi piano piano ho trovato la mia dimensione e il mio grande amore è arrivato guardando i film di Spielberg e con lui il grande cinema del diventare grandi, del vivere grandi avventure. Quello che vorrei è questo, raccontare grandi avventure ed è quello che sto cercando di fare anche nei progetti futuri. Trovare personaggi capaci di attraversare di nuovo il tempo e lo spazio, pur di vivere esistenze capaci di cambiargli la vita e di salvare il mondo. Quindi se dovessi dirti un film che amo alla follia è Incontri ravvicinati del terzo tipo
La stanza di Stefano Lodovichi
Anno: 2020
Durata: 86
Distribuzione: Prime Video
Genere: thriller
Nazionalita: Italia
Regia: Stefano Lodovichi
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