Pieces of Womanil primo film in lingua inglese di Kornél Mundruczóha fatto parlare di se sin dalla sua presentazione alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia dove la protagonistaVanessa Kirby ha vinto a Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
L’importanza del temi trattati come pure la rilevanza dell’universo femminile colto in uno dei riti di passaggio più importanti (quello legato al diventare madre) per gli equilibri della sua esistenza e di quella dei suoi famigliari, rischiano di subordinare il come o se volete la forma del filmrispetto al cosa, e cioè ai suoi contenuti.
La presenza di attori di lingua anglosassone insieme a quello di un paesaggio archetipico come lo e’ nel cinema la metropoli americana non impediscono infatti al regista di continuare a essere se stesso anche in terra straniera – cosa peraltro tutt’altro che scontata – e dunque di avvalersi per la sua nuova avventura delle istanze di una scuola cinematografica in grande ascesa – quella ungherese – e da sempre convinta che laquestione estetica sia anche e soprattutto un fatto sostanziale, ovvero la fonte primaria a cui rivolgersi per comprendere i significati dell’opera.
Da questo punto di vista basterebbe ripensare a Il figlio di Saul dell’altro regista magiaro Laszlo Nemes e considerare a fronte di un argomento mai troppo dibattuto quanto peso abbiano avuto nello shock emotivo provocato dalla sua visione scelte di regia quali l’uso della soggettiva impiegata per far coincidere lo sguardo dello spettatore con quello del protagonista, trasformando il primo in testimone dell’Olocausto in corso; per non dire del malessere scaturito da tensioni di segno opposto, laddove al desiderio di lasciarsi indietro gli orrori del campo di sterminio per l’impossibilità di sostenerne la vista si contrapponeva la spinta a rimanervi di fronte a causa di una narrazione sempre più immersiva, sempre più all’interno del problema grazie alla concentrazione spazio temporale derivata dall’uso – ma non solo – di un formato 4:3 più piccolo del normale.
Allo stesso principio seppur applicato in maniera meno categorica ed evidente si rifà il regista di Pieces of Woman quando nel mettere in scena la premessa del dramma destinato a segnare le vite dei personaggi sceglie di rappresentarlo con un lungo piano sequenza (circa 24 minuti) in cui la mdp ci porta nell’appartamento di Martha e Sean (Shia Leboeuf) dove la donna assistita da un ostetrica e’ sul punto di dare alla luce un bambino.
Se lo svolgimento degli eventi contiene in se caratteristiche di immedesimazione e di drammaticità, quest’ultima scaturitadall’inaspettato sviluppo del contesto, è ancora una volta l’opzione già utilizzata da Nemes e cioè quella di porre il pubblico nella condizione di partecipare agli eventi in stretta connessione con le scelte dei personaggi a fare la differenza: l’uso del piano sequenza non solo permette a chi osservadi cadenzare lo sguardo sul movimento dei protagonisti non rimanendo mai indietro rispetto al cuore dell’azione ma anche di vivere in un tempo cronologico medesimo a quello dei personaggi.
Uniformando il cronometro del nostro orologio esistenziale a quello utilizzato dai personaggi la distanza dal destino di Martha e Sean si riduce ulteriormente perché oltre a essere visiva la condivisione diventa anche interiore. Con ciò che ne consegue in termini di capacità della storia di restare impressa ben oltre la fine della sequenza.
Ma non basta, perché in un film coerente al principio di indicibilità del dolore fino al punto di togliere dalla bocca di Martha le parole adatte a poterlo spiegare, ancora una volta sono le soluzioni adottatedallamessinscena a suggerircene la misura. Così accade quando si tratta di dare corpo alla dissoluzione del ménage matrimoniale tra Martha e Sean, i cui segni si leggono innanzitutto sul piano delle immagini e in particolare dal venire meno di quella contiguità esistente nella rappresentazione della vita di coppia trasmessaci dalla sequenza iniziale.
Se infatti il piano sequenza sopra menzionato ci mostrava i due protagonisti uniti all’interno della medesima inquadratura così non succederà in seguito poichè il trauma della separazione passerà anche per la frammentazione visiva del loro legame, con Martha e Sean sempre più separati uno dall’altro da inquadrature che di rado condividono.
Un discorso questovalevole anche in senso positivo quando si tratterà di tornare a vivere. In quel frangente a fornire senso all’epilogo della vicenda non sarà tanto l’invito fatto da Martha alla bambina per farla scendere dall’albero e andare a mangiarequanto un altro piano sequenza in cui le due figure sono appena riconoscibili, per lo più coperte dal rigoglioso fogliame di una pianta carica di frutti su cui si ferma il movimento della mdp per immortalare l’immagine conclusiva.
Il contrasto tra la luce estiva dell’ultima scena e quelle livida e invernale delle precedenti ma soprattutto il parallelo tra la forza inarrestabile dei cicli naturali, designati ogni volta a rinascere dalle proprie ceneri, e l’istinto materno di Martha, destinata a vincere la morte attraverso il concepimento di una nuova vita sono il segno distintivo di un arte chiamata cinema. Questo per dire che se Vanessa Kirby è così brava è anche perché si muove all’interno di una messinscena, quella orchestrata da Mundruczó,costruita per esaltarne la bravura.
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