Disponibile su RaiPlay, articolata in 6 puntate da 25 minuti Ariaè una docu-serie su alcuni italiani, sparsi in varie parti d’Italia e del mondo – dalla Cina al Kenya, dal Brasile alla Francia – visti attraverso la lente del tempo sospeso della pandemia.
Realizzata da Andrea Porporati, Costanza Quatriglio e Daniele Vicari e da Chiara Campara, Francesco Di Nuzzo, Flavia Montini, Pietro Porporati, Greta Scicchitano, la serie è prodotta da Minollo Film, di Aria abbiamo parlato con Daniele Vicari.
L’eccezionalità di Aria è conseguenza della straordinarietà dei nostri giorni, ma anche delle modalità con cui la docuserie è stata girata.
Sì, è eccezionale, nel senso che noi non abbiamo chiesto ai nostri testimoni di mandarci un video girato in un giorno qualunque della loro vicenda personale, ma di documentare la loro vita con i mezzi che avevano a disposizione. In tal modo, da testimoni, sono immediatamente diventati dei narratori della propria esperienza e in generale delle realtà contemporanea, a dimostrazione che non serve nessuna patente per esserlo. Ricordando la polemica sui poeti laureati o meno, qui stiamo parlando di narratori non laureati. I nostri sono persone assolutamente nella norma, cioè non sono degli eroi, bensì persone speciali, perché in qualche modo hanno avuto la pazienza e la generosità di donarsi agli altri, raccontandosi mentre attraversavano uno dei momenti più strani, complessi e anche difficilmente analizzabili della nostra epoca.
Hai toccato un punto fondamentale dal quale volevo partire e cioè quello di donarsi agli altri. Questo è un tema che emerge non solo dal racconto dei protagonisti. La solidarietà è alla base degli aspetti produttivi del vostro lavoro, poiché parte dei proventi saranno devoluti all’Istituto Spallanzani di Roma, da sempre in prima linea nella lotta contro il Covid-19. In un momento di grandi dubbi e confusione sull’opportunità o meno di affidarsi alla Scienza, questo particolare ci dice da che parte state tu e i tuoi collaboratori.
Ho sempre preso sul serio la nozione di cinema partecipato e se vai a cercare in rete troverai un sacco di cose su un’opera intitolata Il mio paese 2.0 realizzato nel 2007. Parliamo di un lavoro che io non chiamo nemmeno film, per via della sua anomalia e che fa seguito a Il mio paese, che invece è un film documentario classico, in cui sono io in prima persona a fare da narratore. Sulla scorta di quell’opera con la prima televisione online nata in Italia, The BlogTV, fondata da BrunoPellegrini, una persona molto avanti con le idee, capace di proiettarsi nel futuro. Quest’opera consisteva nel raccogliere, intorno al tema della trasformazione post industriale del paesaggio, il punto di vista degli italiani attraverso dei film realizzati da loro, dai cosiddetti utenti della rete. Raccogliemmo quasi duecento opere e fu il primo film partecipato in Italia, ma secondo me anche in Europa, perché all’epoca solo in America esisteva un precedente riguardante soprattutto la guerra in Iraq. Questo approccio è legato alla risposta che mi sono dato sul senso dei social media, che per me sta nella possibilità di ciascuno di raccontare e di raccontarsi. Da qui nasce anche la problematicità di un progetto come Aria: quando la scorsa primavera insieme a Francesca Zanza e Andrea Porporati ci siamo proposti di scegliere degli italiani in grado di raccontarci cosa stava succedendo in Italia e nel mondo, abbiamo seguito il principio di metterci al servizio di queste storie, evitando in qualunque modo di sovradeterminarle. Così hanno fatto i giovani cineasti che ci hanno aiutato nella realizzazione: attraverso i social, i giornali, la radio, la televisione e il passaparola, hanno trovato le persone adatte e si sono messe al loro servizio, per far sì che l’uso dei mezzi di ripresa risultasse funzionale alla modalità del racconto e ai suoi contenuti.
Inizialmente, abbiamo contattato decine e decine di persone; poi, come succede nei documentari, abbiamo selezionato quelle più interessanti dal nostro punto di vista. Sono stati soprattutto loro stessi a selezionarsi: cioè non tutti erano in grado o disponibili a fare un lavoro così lungo e difficile. Nella conferenza stampa di presentazione, Daniele Sciuto, il medico che vive in Kenya, si è soffermato sulla fatica di raccontarsi. Farlo significa mettere in gioco se stessi, la propria vita e quella dei propri famigliari. Poi c’è anche una fatica concreta data dal bisogno di ricavarsi del tempo per fare le riprese, soprattutto per farle in un certo modo. Ognuno di loro scaricava il girato su varie piattaforme, su cui poi a Roma lavoravano tre montatori – ex allievi della Scuola Volontè – coordinati da Luca Gasparini. Abbiamo quindi messo in moto un meccanismo che in qualche misura ha reso possibile il fatto che ciascuno di loro si sentisse rappresentato dal racconto che si andava facendo. Piano piano questo puzzle si è composto in una formula narrativa che è quella che adesso si trova su Raiplay e cioè una docuserie in sei puntate di venticinque minuti ciascuna. Le sei puntate hanno una loro logica, una loro progressione drammaturgia, se si può dire così, messa a punto al montaggio. Ecco, lì c’è stato l’intervento maggiore che abbiamo fatto io, Costanza Quatriglio, ma soprattutto Andrea, che ha seguito il lavoro di montaggio. In questo processo le storie sono state cucite assieme in modo tale che insieme formassero un discorso unico su un periodo storico che noi registi, come narratori, facciamo fatica a raccontare.
Mi ero appuntato Il mio paese perché secondo me dimostra come, nell’ambito della tua filmografia, Aria non sia un progetto nato per caso, ma la conseguenza naturale del tuo sguardo e del tuo modo di fare cinema. Tra l’altro, se penso ad Aria e alla tipologia di persone che ne sono protagoniste, mi tornano in mente i personaggi che tu hai sempre raccontato.
Con Andrea, Costanza e Francesca condividiamo questo punto di vista sul mondo. Crediamo che il cinema debba misurarsi senza rete con la complessità del presente. In particolare sentiamo che in questo passaggio storico l’idea di fare cinema condiviso con i testimoni – nel caso del prossimo Il giorno e la notte con gli attori – non nasce semplicemente dal fatto che siamo bloccati in casa e facciamo fatica a muoverci, ma è la conseguenza dell’esigenza di non rimanere da soli a farci carico dell’interpretazione di un presente che sfugge. Cercare di mettere insieme le forze e quindi anche i punti di vista ha un valore in sé e secondo me il cinema può modificarsi, attraverso questa modalità di racconto, ancora più e ancora meglio di come si stia modificando naturalmente attraverso le possibilità offerte da mezzi di ripresa di cui tutto oggi disponiamo. Secondo me questo è un approccio che ha a che fare con il desiderio di non rimanere spiazzati da quello che ci succede intorno e per me una delle funzioni del cinema è questa qua, non c’è dubbio.
La possibilità di annullare le distanze che ci separano dagli altri, grazie alle opportunità offerte da accessori e strumenti di uso comune, in Aria diventa metafora della pandemia che ha separato gli uni dagli altri. Voglio dire che, in un sistema in cui tutto è a portata di mano e raggiungibile in meno di un attimo, la forma del vostro film spiega meglio di altri esempi il perché della diffusione del virus su scala planetaria.
Secondo me non abbiamo ancora fatto i conti con questa enorme trasformazione, non solo da un punto di vista intellettuale, ma anche sentimentale. Il fatto che ora la distanza fisica tra le persone nel mondo sia sostanzialmente annullata dall’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa èsolo una parte della questione. I social rappresentano un ulteriore passo in avanti, perché, a differenza di quello che c’era prima, questi ultimi sono interattivi: l’utente non è passivo ma attivo. Si tratta di un enorme trasformazione che spiega meglio di qualunque altra teoria la diffusione del virus, perché, così come è facile che io comunichi con una persona che vive in Sudafrica, allo stesso modo la posso raggiungere fisicamente senza alcun impedimento. Con ciò che ne consegue in termini di trasmissibilità del virus.
L’annullamento delle distanze fisiche è una rivoluzione della comunicazione e dello stile di vita di cui comprendiamo a fatica la portata, nonostante sia in atto da decenni. Dunque, se vuoi, è anche piuttosto sconcertante il fatto che ci siamo fatti sorprendere dal virus, perché questa situazione era già evidente da molto tempo e qualcuno l’aveva persino preannunciata. Pur avendone provato le conseguenze sulla nostra pelle, stentiamo ancora a capire cosa sia successo. Fatichiamo a comprenderlo sia sul piano culturale sia su quello antropologico, perché vedo in giro resistenze fortissime ad accettare l’idea che esista un virus mondiale
Quando a marzo, insieme ad Andrea e Francesca, abbiamo deciso di creare una società di produzione che è la Kon Tiki, ci siano posti come priorità quella di interpretare consapevolmente questo passaggio storico dal punto di vista del cinema e il motivo per cui mi piace richiamare le esperienze che ho tentato di fare all’inizio di questo secolo non è per rivendicare il fatto di essere stato il primo a farlo: è che secondo me la questione esiste da sempre.
Un film come Diaz nasce da un progetto di questo genere e cioè da un approccio multimediale ai fatti di Genova. Noi volevamo raccontare il G8 utilizzando come piattaforma fondamentale il blue ray, che era stato messo in commercio da pochissimo tempo e poteva contenere una quantità di informazioni che il DVD classico non permetteva. Volevamo metterci dentro nove film documentari realizzati ognuno da punti di vista diversi: una tuta bianca, una suora, un poliziotto etc. Ci sarebbe dovuto essere anche un film scritto insieme a Massimo Gaudioso e Virginia Borgi incentrato sulla storia di un amico intimo di Carlo Giuliani, Edoardo Parodi, che morì sei mesi dopo Carlo. Il film doveva essere prodotto da VivoFilm. I documentari dovevano essere fruibili attraverso i menù del blue ray; avevamo sviluppato uno schema di montaggio che portava fino a centosei, centosette congiunzioni in grado di navigare tra un film e l’altro, con degli snodi narrativi che poi consentivano di lasciare una storia e prenderne un’altra. Era un’opera multimediale in senso stretto. La mancanza di un mercato per questo tipo di lavoro e la difficoltà a ottenere i diritti di tutte le immagini mi hanno indotto a optare per un film unico, Diaz, prodotto da Fandango, che però mantiene questa struttura di racconto.
Ti faccio questo esempio, perché è chiaro che con i mezzi odierni possiamo fare un montaggio verticale nel senso vero del termine, mettendo le immagini una sopra l’altra. Quindi, anziché navigare in orizzontale, lo si può fare in parallelo. Questa possibilità permette di realizzare il cosiddetto montaggio multiplanare inteso in senso stretto, perché si passa da un piano all’altro che poi è l’idea base di Inception: il film diChristopher Nolan racconta la possibilità di navigare in verticale e passare da un piano all’altro del racconto come succede nei video giochi. Questo discorso così complicato per dire che secondo me i tempi sono maturi per cambiare un po’ anche la natura del cinema documentario. Oggi questa forma può mettere a frutto – forse di più rispetto al cinema di finzione – lo sviluppo della tecnologia,per far sì che si possano raccontare – e quindi, permettimi la licenza- sintetizzare e analizzare situazioni di una complessità apparentemente non gestibile da una narrazione lineare. La nascita della narrazione non lineare e multiplanare secondo me è la grande novità di questo nuovo secolo, il vero passo avanti del cinema.
Aria è un film di paesaggi geografici, ma anche di luoghi dell’anima. A tal proposito mi sembrano indicativi l’inizio del primo episodio e la fine dell’ultimo. In apertura infatti la canzone si sovrappone a immagini di figure umane, raccontandone il sentimento e non la biografia; l’episodio conclusivo si chiude all’insegna dell’emozione suscitata dall’invito a rimanere all’interno dell’armonia del cuore.
Certo, perché come dice Costanza Savaia (una delle protagoniste di Aria, ndr), l’amore e’ preesistente nell’esperienza umana, la quale, essendo un’idea metafisica, in realtà è una visione del mondo estremamente interessante. Questo però lo vediamo solo adesso che siamo rimasti chiusi in casa ed è anche la ragione che in qualche modo ci porta a relativizzare il mondo delle cose e dei prodotti.
Credo che questo sia uno dei fili conduttori del racconto, che è molto semplice da un punto di vista narrativo, ma che allo stesso tempo ha dentro dei fili a cui io tengo molto: uno di questi è proprio il fatto che queste persone assolutamente normali nell’arco dei mesi raggiungono un livello di coscienza molto alto della propria condizione, facendoci il regalo più grande: quello di dirci che vale la pena continuare ad andare avanti, a patto di riconsiderare la nostra vita attraverso i sentimenti. L’organizzazione sociale basata sulle cose e sui prodotti non basta più, perché nella situazione in cui viviamo i sentimenti sono più importanti. I nostri testimoni ce lo dicono con la consapevolezza di chi, come Costanza Savaia, costretta da sempre a vivere in casa o come Simona, obbligata a stare su una sedia a rotelle, rappresenta un’avanguardia in grado di dirci più di quello che noi possiamo immaginare, perché loro questa condizione, ora divenutadi massa, l’hanno già vissuta individualmente per diversi motivi e sono state in grado di capirla.
Condizionate da limiti indipendenti dalle loro volontà, Simona e Costanza hanno compensato tale condizione sviluppando l’infinito che è dentro ognuno di noi e che, insieme a quello degli altri testimoni, contribuisce a dare energia a quello stato dell’anima che attraversa tutto il film.
Esatto. Le loro parole ti rimangono dentro perché interpretano non solo la condizione di vita e le storie di chi le racconta, ma anche degli spettatori che condividono, nessuno escluso, la loro condizione. Non c’è niente da fare, puoi essere anche l’uomo più duro della terra, ma ciò che dicono queste persone ti arriva dritto al cuore, perché le loro parole rappresentano disegnano e sottolineano anche la tua condizione.
Una delle cose più forti che emerge dal racconto di Aria è il senso della misura che pervade allo stesso tempo le persone e l’opera. Di fronte a un avvenimento di proporzioni apocalittiche, l’equilibrio di entrambi gli elementi, da un lato, fa da parametro della dignità con cui queste persone affrontano le diverse situazioni; dall’altro ti permette di trovare la giusta durata di ogni episodio, considerando che l’eccezionalità degli avvenimenti faceva propendere per un’espansione narrativa. Al contrario, i venticinque minuti di ogni episodio restituiscono la dimensione intima e partecipata in cui si compie la narrazione.
Questo perché i protagonisti non sono personaggi, bensì testimoni e la loro esperienza passa attraverso il loro modo di essere e quindi le loro parole, le loro case, il loro modo di vestirsi, i luoghi in cui sono, le scelte di vita che hanno fatto e anche il modo in cui filmano. Questa pienezza della rappresentazione secondo me è estremamente interessante. È per questo che io parlo di devoluzione della funzione di regia: in fondo quest’ultima in un documentario è l’ennesima testimonianza della vicenda che si racconta: l’autore del film sceglie il modo di farlo, ma gli dà seguito attraverso i testimoni che incontra. Entra nel loro quotidiano e quindi è l’ennesimo testimone di quella situazione. Quindi già nel cinema documentario è contenuta l’idea di devoluzione della funzione di regia, perché tu non puoi dire al testimone di comportarsi in un determinato modo e se lo fai si vede. Se non si vede si sente; ti arriva il fatto che in quei momenti il documentario è più falso della finzione. Invece in questo contesto Chiara Campara, Flavia Montini, Pietro Porporati, Greta Scacchiano – i giovani registi – che hanno lavorato con noi – sono stati capaci di calarsi sentimentalmente nelle storie dei testimoni e li hanno semplicemente accesi, messi in moto: hanno detto loro guardate che siete in grado di raccontarvi, e gli hanno fornito il supporto. Questa è la forza del cinema documentario: tu sei lì accanto, di fianco al tuo testimone e aspetti che questo riveli se stesso alla macchina da presa. Nel caso di cui stiamo parlando, la videocamera coincide con l’occhio del testimone e quindi è lui che ti guarda. Questa, secondo me, è una cosa rivoluzionaria nel cinema.
Ogni episodio di Aria dura appena 25 minuti, un tempo anomalo rispetto a standard orientati su un tempo almeno doppio. La sensazione è però quella di una scelta connaturata al discorso interno al film. Aumentarne anche di poco la durata ne avrebbe alterato gli equilibri.
Il termine durata è perfetto, perché proprio in termini bergsoniani il problema della lunghezza di un racconto non è relativo al minutaggio, ma alla necessità temporale insita al suo interno. La misura di questa urgenza la si trova a volte con grande fatica e molta applicazione. In Aria ci sono mesi di montaggio e l’impegno delle persone che vi hanno lavorato; però è proprio il respiro interno delle storie che ha portato al risultato finale. Durata è il termine giusto per definirne la lunghezza, perché a un certo punto quasi naturalmente questo minutaggio è diventato del tutto connaturato con il racconto; non lo senti come una forzatura, non senti mai che la singola puntata finisca un po’ prima o un po’ dopo, perché il respiro interno che ha è quello lì. Fammi dire che il lavoro di montaggio coordinato da Luca Gasparini e realizzato da Martina Torrisi, Angelo Santini, Graziano Molinari è decisamente puntuale e complesso. Per questo l’incontro con Raiplay è stato molto importante. Non si tratta semplicemente di un nuovo canale Rai. Grazie a Elena Cappelli (direttore di RaiPlay) e a Maurizio Imbriale è diventata una cosa pensante. Parliamo di persone con cui riesci a condividere fino in fondo le tue scelte, per cui, quando abbiamo deciso di non fare un unico montaggio di un’ora e venti ma di utilizzare la tecnica della narrazione a episodi, ci hanno dato carta bianca, essendo d’accordo con noi su una scelta che consente allo spettatore di prendere un respiro e di considerare in quello se stesso e la propria vita. Se vuoi è qualcosa di brechtiano e cioè una pausa in cui prima di continuare il filo del discorso diciamo allo spettatore che quel racconto lo riguarda da vicino. In questo modo lo spettatore non dimentica mai chi è e cosa pensa.
Nei suoi singoli segmenti, Aria e’ stato girato dalle persone che ne sono protagoniste. Da parte vostra c’è stato invece un lavoro teso a valorizzare le immagini mediante un dispositivo capace di accogliere l’infinito pulsante nell’anima dei protagonisti. Oltre al montaggio, penso per esempio agli interventi sul colore, ma anche all’uso di una tecnica come quella dello split screen in grado di moltiplicare le possibilità della visione.
Tutto questo rientra nel concetto stesso di un progetto come Aria ed è la prima cosa che forse ci è venuta in mente quando ci siamo chiesti come intitolarlo. Aria è infatti quel momento di un’opera in cui un personaggio si prende tutta la scena per cantare la propria condizione: egli smette di raccontare e attraverso il canto espande la propria anima a tutta la platea. Quello di Aria è un concetto meraviglioso e nel racconto cinematografico secondo me si sposa benissimo con quello che abbiamo chiamato prima il punto di vista del testimone, perché questa modalità appartiene anche a coloro che hanno meno attitudine a razionalizzare o a filosofeggiare. Succede per esempio nel caso di Costanza e di Simona, quando mettono il telefono appoggiato sulle gambe o sulla scrivania si riprendono mentre parlano, in una sorta di video- diario. A tal proposito io amo moltissimo una scena apparentemente secondaria in cui la famiglia Santonicola e cioè Gerardo, Marta e il loro figlio, rimasti intrappolati in Brasile, si riprendono regalandoci questa sospensione spazio temporale, in cui l’unica cosa da fare è scontrarsi sull’interpretazione del sapore del cibo reso indecifrabile dalle conseguenze del Covid appena contratto. Al marito che si lamenta perché il pasto non sa di niente Marta risponde per le rime dicendo che è lui a non sapere di nulla. Gerardo, pur non essendo un intellettuale ma un operaio, è perfettamente consapevole che quel momento di sospensione è una delle cose più importanti da raccontare ed è per questo che tiene il cellulare acceso. Quell’attimo di tregua ci racconta più di qualunque altra cosa perché quando dobbiamo confrontarci con una malattia invisibile ci guardiamo negli occhi, consapevoli che essa sta cambiando la nostra vita a cominciare dalla percezione soggettiva delle cose; in una situazione del genere dove va a finire l’amore per l’altro? Quella secondo me è una scena straordinaria che in un film di finzione sarebbe difficilissimo da scrivere e che invece in Aria ti trasmette un’emozione talmente forte che poi raccogli quando loro tornano a casa. In quello spazio finalmente normale c’è un elemento di vita straordinaria.
La sequenza del pesciolino che dopo mesi la famiglia ritrova ancora vivo è un momento straordinario di vita che si fa cinema. Per non dire della forza drammaturgia che ha all’interno del film.
E’ straordinaria perché prima c’è stato il tempo sospeso del pranzo, nel quale la perdita del sapore richiama una mancanza che sa di morte, poi il ritorno a casa foriero di meraviglia e felicità. Nella sequenza di cui mi chiedevi è naturale commuoversi; sarebbe disumano non farlo, perché l’emotività del momento non è data solo dal melodramma della voce di Marta che piange fuori campo mentre riprende il pesciolino ancora vivo. È la cosa in sé e cioè il fatto che il pesce, come loro, è vissuto in una situazione impossibile a scatenare quei sentimenti. In un momento come quello io amo il cinema, perché questa scena ce l’ha regalata la famiglia Santonicola, è un dono pazzesco e noi non dobbiamo far altro che valorizzarlo all’interno del racconto.
Aria è un film anche sul fare. Alcune delle persone sono dei volontari: una di queste è impiegata ma nel tempo libero è coinvolta nella Croce Rossa. C’è poi il medico impegnato in Africa che insieme agli altri dà vita a un gruppo di persone impegnate ad aiutarsi una con l’altra. Una comunanza di intenti e una voglia di fare, rispetto alle quali a rimanere indietro sono lo Stato e le sue strutture.
Assolutamente sì.E’ per questa ragione che non ho affatto amato la retorica dei balconi. Io mi sono astenuto dall’affacciarmi, non per altezzosità o per mancanza di empatia con il mio popolo. Al contrario, credo che quelle immagini rappresentino l’energia e la forza delle persone che sono state comunque in grado di attraversare un periodo storico che solo a pensarci fa tremare i polsi.
Diciamo però che e’ un tipo di rappresentazione molto funzionale al racconto che il potere vuole fare di un popolo, passiva e attendista. Personalmente mi fa piuttosto incazzare quel modo di raccontarlo. Se ci facciamo convincere che le cose stanno così, limitandoci solo ad aspettare, diventiamo talmente passivi che poi chi comanda, le organizzazioni governative e la televisione fanno di noi quello che vogliono.
Per contro, i nostri testimoni sono persone fino in fondo: in ogni momento non rinunciano al fare perché non rinunciano a essere. Vanno incontro agli altri con il desiderio di esserci nonostante la difficoltà: di costruire la socialità che è l’elemento fondamentale del nostro vivere insieme. Quello che ci sta permettendo di non soccombere rispetto alla pandemia è il fatto che noi riusciamo, non solo a sopravvivere, ma a vivere. Se invece la narrazione della pandemia è solamente eroica o solamente sociologica, ecco che diventa un punto di vista schiacciante. Non credo sia giusto raccontare ciò che stiamo vivendo se non testimoniamo anche questa enorme esplosione del desiderio di stare con gli altri. Certo ci sono anche gli idioti, ma quelli non mancheranno mai nella storia dell’umanità.Di solito fanno molto notizia e molto rumore e sovrastano il racconto di questa energia sociale che per fortuna, secondo me, si è manifestata
Oggi sul Fatto quotidiano ho letto una frase di Roberto Saviano che recita: “ Per uscire dalla solitudine mai come oggi serve ossigeno anche se è proprio questo che manca”. Un concetto in qualche modo collegato al racconto di Aria.
Credo che sia casuale, ma la tua osservazione la rende organica. Io penso che sia assolutamente vero. È vero che manca l’ossigeno, non c’è dubbio, però se guardiamo il mondo da un punto di vista troppo lontano non capiamo che in realtà le persone respirano e non ci stanno a essere ridotte in schiavitù. La schiavitù di un quotidiano forzato.
Il fatto che abbiamo trovato il modo di reagire alla pandemia, pur restando dentro le nostre case, secondo me è la più grande affermazione poetica sulla necessità che ha l’essere umano di non limitarsi a esistere ma di voler vivere. L’esistenza e la vita sono due cose completamente diverse. Se riduciamo la nostra vita a mera esistenza, possiamo avere tutto l’ossigeno che ci pare ma siamo degli ectoplasmi. Invece noi vogliamo vivere e questo desiderio secondo me sarà vincente a patto che non ci lasciamo abbindolare dalle sirene di quelli che dicono di essere i soli a poter risolvere il problema. È per questo che dico di vaccinarci tutti, senza però avere l’illusione che il vaccino da solo sia in grado di risolvere la questione, perché quello dipende da noi. È una delle condizioni necessarie ma non sufficienti per far uscire il mondo da questa situazione. Ecco perché quella che chiamo presa di coscienza da parte dei nostri testimoni è preziosissima: loro non vogliono semplicemente esistere, loro vogliono vivere!
Il racconto di Aria si ferma a giugno, Alla luce di quello che avete raccontato e che hanno raccontato le persone nella docuserie, oggi, come vedi ciò che ne è seguito ?
In questo momento secondo me stiamo vivendo una sorta di loop, perché in qualche modo ci siamo illusi collettivamente di essere usciti dalla pandemia a ridosso dell’estate. Questo ci ha fatto molto male, perché le disillusioni sono molto peggio delle sconfitte sul campo di battaglia: quelle ti permettono di reagire, mentre la disillusione è qualcosa che si insinua dentro di te, paralizzandoti. Credo che proprio per questo è importante raccontare la capacità di intraprendenza delle persone semplici, perché è solo se si muove la società che usciamo da questa condizione, perché se le persone si lasciano abbindolare da parole d’ordine fallaci ecco che succede quello che stiamo vivendo oggi. Io credo che dobbiamo mettere a frutto ciò che abbiamo imparato e, semmai dovessimo realizzare una seconda stagione di Aria, lo faremo con questa consapevolezza,
Aria di Daniele Vicari, Costanza Quatriglio, Andrea Porporati
Anno: 2020
Durata: 6 puntate, 25'
Distribuzione: RaiPlay
Genere: documentario
Nazionalita: Italia
Regia: Andrea Porporati, Costanza Quatriglio,Daniele Vicari
Data di uscita: 29-December-2020
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