Rita Ricucci Lo spazio dell’anima. Il cinema di Kim Ki-duk Edizioni Falsopiano
Morendo improvvisamente per complicazioni legate al Covid-19, il regista sudcoreano Kim Ki-duk ha lasciato un grande vuoto in tutti coloro che apprezzano il cinema di quel lontano paese e, in particolare i suoi film.
L’interessantissimo libro di Rita Ricucci Lo spazio dell’anima. Il cinema di Kim Ki-duk, da poco uscito per le Edizioni Falsopiano quasi in contemporanea con la scomparsa del regista, permette a tutti, appassionati e studiosi, di approfondire le tematiche e lo stile dell’artista che lo hanno reso unico nel panorama del cinema mondiale.
Un artista a tutti gli effetti, come sottolinea la stessa autrice, che lo definisce un regista che “lavora con l’immagine attraverso un’immediatezza che non ha nulla di teorico, che non rispecchia e non rispetta alcuna teoria estetica: si tratta di un’arte che agisce senza alcuna preoccupazione estetica […] di un’arte che […] non vuole “fare l’arte” […]”.
Il libro di Ricucci, con l’introduzione di Silvano Petrosino e la postfazione di Roberto Lasagna, è suddiviso in due parti. Nella prima vengono analizzati in maniera approfondita gli aspetti legati alla figura di Kim Ki-duk e al suo modo di fare cinema. Con cenni biografici e una cronologia filmica che ne analizza la filmografia evidenziandone tematiche e simbologie che, spesso, ricorrono in molte delle sue opere.
A seguire viene proposta “una visione antropologica del cinema di Kim Ki-duk” con particolare riferimento all’aspetto, sempre molto presente nelle sue opere, della religione e della religiosità. Kim, nelle sue pellicole, esprime infatti, secondo l’autrice “l’interiorizzazione della religione conosciuta e praticata, ma senza darne un giudizio di valore, né assoluto né relativo”.
Nel testo si affronta, mediante l’approfondimento di tre film considerativi significativi quali Time, L’isola e Pietà, l’aspetto legato al “vivente” che, secondo la categorizzazione che ne fa Petrosino, è “colui che vive, muovendosi verso l’altro da sé con la forza motrice dell’appetito e del godimento […] uno slancio incontenibile generato dalle esigenze della nutrizione e della riproduzione, e dall’istanza di godimento che non a caso ad esse è sempre connessa”.
Nella seconda parte viene presa in considerazione la figura dell’uomo nel cinema di Kim Ki-duk, attraverso l’analisi approfondita di due dei suoi più importanti film.
Il primo è Arirang, pellicola del 2011 che vide la “rinascita” artistica del nostro, dopo il periodo di profonda depressione patito a causa dell’incidente quasi mortale avvenuto sul set di Dreams, allorché una sua attrice, nel corso delle riprese, rischiò seriamente di morire soffocata per impiccagione.
Con Arirang, sorta di film verité, Kim Ki-duk si riprende e si racconta, registrando – e raccontando in prima persona – il trascorrere delle giornate passate a riflettere in una sorta di eremitaggio in un capanno lontano da tutto. Raccontando quindi l’essenza dell’uomo che, in questo caso, altri non è che egli stesso. In questo film – Rita Ricucci lo sottolinea in maniera esaustiva – c’è tutto il pensiero del regista che, in questa sua particolare fase della vita, sente il bisogno di “esperire il concetto di morte”.
Infine, con Ferro 3, l’autrice prende in considerazione aspetti legati al tema dell’“abitare”, inteso come spazio “antropologico”, cioè “esistenziale”.
Alla fine della lettura, Lo spazio dell’anima si rivela per ciò che è, un libro estremamente complesso che non si limita a tracciare un profilo di Kim Ki-duk e del suo cinema ma che entra nella filosofia del cinema di questo artista. Un libro molto interessante che arricchisce la bibliografia – a dir la verità non particolarmente ricca – del regista recentemente scomparso.