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L’ estetica di Natale in casa Cupiello. Conversazione con Edoardo De Angelis

Edoardo De Angelis non commette l’errore di imitare il celebre testo edoardiano, realizzandone una versione ispirata e coerente

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Con la complicità di un grande Sergio Castellitto e di un eccellente gruppo di attori, Edoardo De Angelis non commette l’errore di imitare il celebre testo eduardiano, realizzandone una versione che si ispira alla forza della vita.

Volevo partire dalle valenze del lungo piano sequenza che introduce. È una forma che tu utilizzi molto nel tuo cinema: così per esempio si apre Indivisibili e in parte anche Il vizio della speranza.

Sì, lo uso perché mi restituisce un senso di vita che fluisce senza interruzione e con dei tempi dettati più dal gesto umano che non da quello del montaggio. Non è un dogma però: è uno strumento che amo utilizzare.

In generale tendi a staccare il meno possibile e che ciò non sia una regola, bensì una necessità, lo si sente perché il fluire delle immagini è dolce,  non diventando mai un esercizio di virtù.

Soprattutto, non uso quasi mai movimenti della macchina da presa indipendenti da quelli  degli esseri umani che agiscono sulla scena. Ho un’idea di curva del piacere legata alla permanenza del fotogramma all’interno del montaggio. Quando tale intensità di racconto tocca la cima, si è portati sempre a tagliare; al contrario, io preferisco aspettare, consapevole che oltre quella curva c’è un piacere ancora più grande, e cioè l’umanità pronta a esprimersi con i suoi tempi e con i suoi casi e anche con le sue distrazioni, con i suoi fuori tempo. Questo perché l’occhio che si muove non è mai in sincronia con il divenire delle cose. Di solito, quest’ultimo raggiunge i fatti o un po’ prima che si verifichino o un po’ dopo. Questo fuori tempo per me è importante. Nelle mie sequenze tutto deve essere fuori tempo, come la vita.

In Natale a casa Cupiello, il piano sequenza iniziale ci porta all’interno della casa, segnalando il particolare del militare americano che si intrattiene con una giovane ragazza – forse una prostituita – utile a collocare la vicenda nel secondo dopoguerra. Particolare questo che, in qualche modo, ricollega la storia al nostro tempo, con la pandemia che in termini di suggestioni e stato d’animo prende il posto del conflitto bellico.

È un riferimento pertinente. La sequenza si apre con l’evidenza di un uomo in carne ed ossa che dorme e che raffigura come una sorta di ingresso nel sogno insito nella rappresentazione del presepe, così come vuole la tradizione con  la presenza del pastore Benino. Man mano  che ci addentriamo in questo presepe, che poi è il film di Natale in casa Cupiello, incrociamo altri gruppi pastorali: per esempio le lavandaie e questo soldato americano assieme alla ragazza. Il film effettivamente è collocato proprio nel 1950, epoca in cui a Napoli c’era ancora una presenza massiccia di soldati americani, i quali spesso entravano in relazione con ragazze, non necessariamente prostituite, alle quali facevano molti regali e con cui trascorrevano molto del loro tempo. Entrando nella casa dove il sogno del presepe comincia a prendere corpo, piano piano ci troviamo in contatto con una dimensione di continuo conflitto tra il mondo reale e quello onirico. Una dialettica emblematica della terra che lo ha generato, perché Napoli è un luogo in cui sogno e realtà si mescolano continuamente.

Nella sequenza introduttiva, segnali questi aspetti a partire dalla  musica degli  zampognari  che annunciano la prossimità del Natale: dopodiché, nella stanza, vediamo Lucariello, il cui sonno lo mette da subito in relazione con il concetto di presepe. Quest’ultimo è una sorte di estensione del modo di essere e di pensare del protagonista.

Sì, per Luca il presepe è il mondo come dovrebbe essere, è il suo sogno di ordine e di armonia. Non è casuale che il suo risveglio sia molto faticoso. Essere desto per lui significa fare i conti con quello che non vuole vedere, come invece fa quotidianamente Concetta. Non a caso  rifiuta la questua dello zampognaro, così come il sogno del presepe: Concetta è attaccata alla vita di tutti i giorni e alla lotta quotidiana di cui essa necessita. Dunque, i tamburi che ne accompagnano la camminata volevano essere proprio quello: una sorta di peana, un canto di guerra, che deve affrontare ogni giorno Concetta, mentre Luca preferisce sognare.

Emblematico della sua condizione è il fatto di introdurre il personaggio di Luca Cupiello immobile e dormiente sotto le coperte. Un’ immagine destinata a diventare metafora del suo rifiuto del mondo reale.

Sì, infatti questo inizio rappresenta l’atto di violenza che Luca subisce ogni mattina, quando è strappato dal sonno per tornare alla realtà. All’interno di questa guerra tra sogno e realtà, i protagonisti, nel corso della storia, si scambiano spesso di ruolo, perché poi Luca una volta sveglio fa di tutto per strappare il figlio Tommasino dal suo sogno.  Il ragazzo rifiuta la visione del mondo di suo padre, così come l’ordine che lo presiede: per lui è importante preservare le sue comodità e rimandare il momento in cui sarà costretto a crescere, prendendosi le proprie responsabilità.

La natività della storia  non è solo quella di Gesù bambino, ma anche di Luca, il quale con il procedere della vicenda rivela uno sguardo puro, come quello di un bambino appena nato.

Infatti, lui è attaccato a un sogno innocente. Solo se hai quello puoi credere che anche nella vita gli uomini e le donne stanno sempre al loro posto come nel presepe, pronti a interpretare il loro ruolo all’interno di un’unica famiglia, unita e armonica. La realtà è diversa; lo dimostra la spinta ribelle esercitata da Minuccia, fautrice di una libertà che si contrappone alla conservazione dell’armonia. Di per sé si tratta di un valore giusto, ma è anche vero che esercitarlo in maniera incondizionata la porta a distruggere tutto quello che c’è intorno a lei, quindi anche gli aspetti positivi. Si tratta di due spinte contrapposte, destinate a trovare una sintesi nel terzo atto, laddove Luca Cupiello accetterà di cambiare posizione e segno ai pastori del “suo” presepe:  sarà  d’accordo a compiere l’estremo sacrificio, a patto che anche gli altri facciano un passo verso l’armonia, rendendosi conto che la libertà incondizionata di fondo è una stupidaggine.

Il presepe diventa metafora di tutto e dunque della conservazione di fronte al mondo che cambia e che Luca non vuole capire, soprattutto per quanto riguarda il modo di fare delle nuove generazioni, rappresentate dai suoi figli.

Chiaramente la vicenda di Natale in casa Cupiello non è attuale, né contemporanea, ma è una storia vecchia, nel senso che la sua origine si perde nella notte dei tempi: riguarda le donne e gli uomini da quando esistono sulla faccia della terra. Anzi, siccome è la storia di un ordine che si disgrega e che faticosamente si trasforma in uno nuovo,  diverso da quello iniziale, se ci pensi assomiglia all’origine dell’universo. In pratica, quello che cerchiamo sempre di raccontare: interrogarsi sull’origine dell’universo è il gesto che l’uomo compie da sempre per mettere ordine in qualcosa di per sé disordinato.

Quanto il concetto di presepe, come unico recinto, sia radicato nella mentalità di Luca emerge quando confessa che, se fosse per lui, famigliari e parenti abiterebbero tutti sotto un unico tetto: il suo.

Si tratta di un sentimento oggi percepito come ingenuo, ma a cui mi sento accomunato. Molti di noi qualche volta sono stati suggestionati da questo tipo di desiderio, soltanto che dove c’è un padre, che è anche un padrone, come succede nella famiglia patriarcale, tutti i ruoli all’interno dell’esercizio della loro libertà non sono più compatibili con una casa unica.  Oggi la famiglia vuole essere più una squadra in cui ognuno ha un proprio ruolo, ma non esiste un capo. La crisi del patriarcato è la colonna portante dell’intera opera di Edoardo De Filippo

Luca dice che il presepe è importante perché fa emozionare le persone, con ciò esprimendo un concetto, quello della tenerezza, capace di spegnere la violenza sul nascere

È un antidoto contro l’aridità.

Nel film metti in pratica uno dei segreti dell’arte di Edoardo De Filippo, e cioè quello di fare cultura alta partendo dal basso. Rivedendo tic e ossessioni, miserie e nobiltà presenti nella messinscena del film, si capisce quanto vi siano debitori gli artisti napoletani venuti dopo di lui. Troisi e La Smorfia per esempio gli devono molto.

Sì, ma anche andando oltre gli autori napoletani, in qualche modo, tutta la grande stagione della commedia all’italiana ne idealizza la commistione tra la disperazione più profonda e l’attaccamento gioviale alla magia della vita. Lui scriveva tragedie riuscendo a far ridere il pubblico. 

Registi e attori affermano che le grande interpretazioni dipendono in parte da un testo capace di stimolarne qualità e predisposizione. Da questo punto di vista il tuo film rappresenta il massimo per un attore.

Beh, le parole scritte da Eduardo sono di una potenza talmente cristallina e assolutamente non scalfita dal tempo da rappresentare uno strumento lussuoso per ogni attore che vi si trovi a lavorare. È chiaro che i testi vanno amati, ma non ci si deve spaventare; l’amore non deve generare paura, ma stimolare quel sentimento di appropriazione legittima di qualcosa già patrimonio dell’umanità. Sono tesori che appartengono a noi in quanto esponenti dell’umanità e, per quanto riguarda questo progetto, il testo di Eduardo è il grande punto di forza sul quale abbiamo costruito il resto.

Avete scritto la sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso, di cui sappiamo la capacità di raccontare il magico e il favolistico. Nella vostra versione di Natale in casa Cupiello, il confine tra realtà e sogno è pieno di questi due aspetti.

Questo è uno degli aspetti che mi ha sempre più affascinato. La scrittura di Eduardo utilizza un linguaggio che permette di esplorare queste continue commistioni, queste continue incursioni del sogno nella realtà e della realtà nel sogno, di cui chiaramente ci siamo avvalsi con tutta la gioia possibile. Siamo entrambi napoletani e quindi in qualche modo questa combinazione è a noi connaturata; non è qualcosa che viene utilizzata come strumento tecnico e letterario, ma appartiene al nostro modo di stare al mondo. Chi nasce qui sa che tutto quello che lo circonda un po’ è inventato, un po’ è vero.

La fotografia è quasi materica, al punto tale che i colori sembra quasi di poterli toccare. Per non dire della prevalenza dell’azzurro, utilizzato dalla fotografia per i rimandi alla dimensione onirica della storia. 

Con Ferran Paredes Rubio abbiamo lavorato in questa direzione, per riportare il testo nella materia molle della carne degli esseri umani e in quella dura dei muri, delle suppellettili che si rompono; della materia anche eterea, dei fiati che ci scambiano uno con l’altro. Il lavoro sulla materia e sulla dimensione animale di questi personaggi per me è stato centrale sulla costruzione dell’estetica del film.

Trovo che l’interpretazione di Castellitto sia tale da confermarlo ai vertici della sua categoria. Castellitto era l’unico attore non partenopeo e lui, essendone consapevole, non fa l’errore di accentuare l’inflessione dialettale; evita il birignao, facendo leva sulle altre qualità del suo repertorio.

Castellitto è attore di intelligenza mostruosa ed era ben consapevole di quali fossero i rischi e dove si potesse cadere nell’interpretare un personaggio così radicato nella cultura italiana. Scimmiottare un accento sarebbe stata una strategia artistica di serie b. Per raggiungere il risultato, era invece necessario centrare l’umanità di questo personaggio e accostarsi alla lingua eduardiana, proprio come si fa con qualunque altro idioma, usandola senza cercare la riproduzione del dialetto, cosa che non rientrava negli intenti di Eduardo.

De Filippo costruisce una lingua sofisticata e molto stratificata, alla quale ci si deve rapportare con lo studio, ma anche con un certo livello di spericolatezza. Essa funziona come il gesto atletico che deve essere allenato bene e molte volte, prima che possa diventare un riflesso naturale, generato quasi come un automatismo dal corpo. Bisognava tendere al paradigma eduardiano, per essere poi pronti e liberi di generare anche nuovi parti di testo, nuove battute. È questo che ha fatto Castellitto in una  interpretazione che chiaramente non sta a me l’onere di giudicare, ma a cui guardo con grande ammirazione.

Sono molto felice di questo Luca  Cupiello, perché non fa riferimento alla interpretazione monumentale eduardiana che sta lì e non va toccata. In generale, non aveva senso accostarsi a un’opera di tale portata cercando di imitarla. Piuttosto, è vero che i film devono imitare la vita non il cinema o il teatro. I film, per essere tali, devono riprodurre la vita: è questo che ci devono restituire, una sensazione di sintesi. Ci devono permettere di unire i puntini che nell’esistenza sono sparsi. L’esperienza più meravigliosa dell’assistere a un tale spettacolo è la possibilità di trovare in quel racconto una forma sintetica del mondo intero.

Un aspetto che ho trovato affascinante risentendo il testo è, come dicevi, la complessità di un linguaggio in cui si mescolano termini molto popolari con altri che invece sono di fattura nobile e ricercata.

Si tratta di una peculiarità tipica della lingua napoletana, che è un vero e proprio calderone di influenze nobiliari a popolari, francesi come spagnole. La lingua di Eduardo non è quella popolare di Raffaele Viviani (attore, commediografo, compositore, poeta e traduttore italiano, ndr), e neanche quella derivata dal linguaggio parlato,  ma era stata costruita ispirandosi alla vita, per poi diventare il risultato di una sintesi artistica. E’ stato il suo un processo così ben riuscito e potente  da influenzare la lingua parlata.

Come per De Filippo, il tuo cinema sembra costruirsi intorno a una sorta di compagnia teatrale,  nel senso che a concorrervi sono spesso i medesimi interpreti. Penso soprattutto ad attrici come Marina Confalone e Pina Turco, ambasciatrici di un cinema, il tuo, pensato molto al femminile.   

I personaggi femminili li amo molto. Poi però mi innamoro soprattutto degli esseri umani e in genere di quelli portatori di un dolore profondo, ma anche della capacità di superarlo. Quindi dolore e vitalità sono due elementi che ricerco nelle persone di cui mi circondo. Le capacità tecniche sono la base di partenza, ma è l’umanità che fa vivere i personaggi. Non sono minimamente interessato alla recitazione, quanto piuttosto alla mimesi della vita.

Che poi è esattamente ciò che mi ha detto Antonio Capuano nel corso di una recente conversazione. All’inizio di ogni atto di Natale in casa Cupiello c’è uno stacco in cui ne approfitti per rompere l’unita di luogo, rappresentata dagli interni dell’abitazione, per girare in esterni.

Sì, ma non è che sentissi necessariamente il desiderio di uscire fuori per soddisfare un bisogno generico di staccare dagli interni. Piuttosto ho pensato che tra le righe del testo di Eduardo ci fosse spazio per approfondire delle dinamiche relazionali tra i personaggi. Alla fine del primo atto, ho immaginato Luca Cupiello muoversi con grande agio nell’unico luogo dove viene rispettato e cioè il luogo dove si vedono i pastori. Oppure ho pensato quale relazione potesse intercorre tra Ninuccia e Tommasino, i fratelli che invece, nella commedia originale, non hanno mai nessun tipo di scambio, nessun tipo di relazione. Mi sembrava che il mezzo audiovisivo mi desse l’occasione per approfondire  questi aspetti e quindi non mi sono lasciato sfuggire la possibilità di farlo.

Per concludere, ti chiedo qual è cinema che ti piace come spettatore, ma anche come regista e autore.

Io non sono un cinefilo: guardo tantissime volte un certo numero di film spinto dall’ossessione verso i pochi che amo.  Così facendo, trovo sempre sfaccettature nuove e poi mi piace la ripetizione. I bei film sono un po’ come delle preghiere: ogni volta che le ripetiamo, anche se le parole sono le stesse, ci sembra che dicano cose nuove.

Puoi dirmi qualche titolo?

Underground di Emir Kusturica, che è stato un po’ il mio maestro, l’autore che mi ha aiutato ad esordire. Il suo è un film visto e rivisto molte volte. Anche Over the Top di e con Sylvester Stallone; da bambino è stato un film che non mi stancavo mai di rivedere. 

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