Il carisma di John Carpenter risiede nella sua straordinaria abilità di utilizzare il cinema di genere come veicolo per la produzione di storie avvincenti e liberatorie, spesso in grado di affermare originali concetti ideali e culturali. Il risultato di questa sua specificità sono grandi film che si offrono a letture multilivello. Sulla superficie ci sono narrazioni coinvolgenti che esplorano i caratteri umani, più in profondità risiedono le metafore politiche che, come virus benefici, sfruttano gli agi e gli archetipi dei generi thriller ed horror insediandovisi come in cellule forti e vigorose.
Questa magica alchimia, sfortunatamente, non si è ripetuta in The Ward, film che racconta la storia di un devastante disagio psichico, ambientato in un reparto di un ospedale negli Stati Uniti degli anni ‘60. Una volta sfumata la possibilità di sfruttare la trama come sfondo di una narrazione più profonda, resta una storia consunta, segnata da tutti i logori stilemi del cinema horror: improvvise e improvvide variazioni di volume che fanno sobbalzare lo spettatore, a prescindere dal suo coinvolgimento emotivo, profluvi di apparizioni di orride maschere alle spalle dei protagonisti e una parca manciata di azioni splatter.
Sebbene nel finale si ricomponga l’unità di uno sviluppo narrativo monotono, questo, pur fornendo una possibile spiegazione alla mancanza di spessore dei personaggi, non apporta contenuto di interesse al film. Purtroppo anche la recitazione delle protagoniste, certamente non aiutate dalla povertà della sceneggiatura, non è delle più brillanti e questo contribuisce a restituire un quadro complessivo certamente deludente.
Spiace notare come Carpenter, nonostante la produzione sostanzialmente indipendente, non sia riuscito a cogliere nessun nesso politico della storia che, anche involontariamente, ne offriva moltissimi: la psichiatria meccanicistica che fa uso dell’elettrochoc, un paese che è appena uscito dalle paranoie del maccartismo, la violenza sui più deboli ed indifesi e molto altro ancora. Se si fosse costretti a desumere un senso dal film (ma questa operazione non sembra preventivata né dagli sceneggiatori, né dal regista) occorrerebbe prendere atto della inesorabile incurabilità del male, ma questa massima di verità appare talmente marginale che parrebbe fin troppo generoso attribuirgliela. John Carpenter resta un maestro del cinema di intelligenza e originalità straordinarie, ma anche ai migliori accade di sbagliare.