Cinema ostinato quello di Abdellatif Cechiche, accanito, oltranzista nel mantenersi cocciutamente ma sacrosantamente in “situazione”; ed ecco che un normalissimo pranzo di famiglia scandito dal chiacchiericcio insipido di commensali trascurabili diviene “evento”, in cui la dilatazione del tempo, contestando la tirannia dell’ellissi, innesta una poetica potente, illuminando l’inessenziale del quotidiano e svelandone l’occulto potere.
La cinepresa insiste sui volti e, nell’inseguirli, crea un dinamismo che nemmeno il più spericolato dei montaggi potrebbe uguagliare. Il volto non mente, è maestosamente ingrandito sull’intero schermo, diviene esso stesso cinema, e ci si ritrova a solcare con lo sguardo un aggrovigliarsi di rughe che scuote lo spazio, deformandolo fino a farlo collassare su se stesso. Il volto, che è sempre dell’Altro, richiama quella responsabilità infinita (dell’uno-per-l’altro), che nell’adempiersi invece che diminuire si accresce fino a incarnare quel debito (infinito) che costituisce la posta dell’irrapresentabile. Il cinema, arte del visibile par exellence, si torce, almeno nei propositi, nel suo contrario, contestandosi fino a contraddirsi. E per gli altri un padre si estenua in una corsa affannata, senza speranza, in un voler morire che è dono estremo di se stesso e, contemporaneamente, liberazione.
Una non meglio precisata città portuale francese fa da scenario a questa piccola saga familiare ove si assiste al passaggio di generazione, ma stavolta senza lo spargimento di sangue del solito conflitto edipico; questo è cinema, dilatazione morbosa delle forme fino a perderne i contorni, torsione acrobatica della manifestazione nel suo nascondimento, epopea dell’ordinario che non cessa di stupire gli anti-eroi della deiezione quotidiana.
Luca Biscontini
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