10 film ambientati nel periodo di Natale che dovresti guardare
Sono stati scelti 10 film ambientati, parzialmente o totalmente, nei giorni di Natale ma non sempre connessi a questo periodo o non incentrati totalmente su di esso. O semplicemente meno conosciuti. Soprattutto un'occasione per ricordare, consigliare, associare al Natale film celebri o meno, viaggiando tra epoche e luoghi diversi
Si dispiega da oggi il tappeto rosso che conduce al Natale. Più che una festività, una fucina di racconti che sembrano giungere da un altro mondo. Una danza di luci tintinnanti che si rincorrono facendosi eco e un catalizzatore iridescente di pensiero, vita ed immaginario sociale. Il cinema, soprattutto nella sua essenza rituale novecentesca, ha peculiarità molto simili e ne è soggetto intercambiabile. Non sorprende, dunque, che il racconto cinematografico si sia legato così tante volte al Natale, cogliendone sia l’atmosfera che i topoi narrativi.
Tra i primi ci fu Santa Claus, del 1898, cortometraggio diretto da uno degli esponenti della Scuola di Brighton, George Albert Smith. Per arrivare fino al recente Jingle Jangle. Ma sono moltissimi i film che sono diventati Classici di Natale, visti e rivisti in famiglia proprio in quel periodo. Vuoi perché ruotano totalmente attorno a questa festa, a cui hanno legato la propria fama, vuoi per scelte ricorsive della programmazione televisiva. La vita è meravigliosa, Una poltrona per due, Il Grinch, Mamma ho perso l’aereo, Nightmare Before Christmas sono solo alcuni degli esempi che potrebbero continuare a lungo.
Ma in questo articolo non saranno presi in considerazione tali titoli, per uscire da questo loop infinito e smarcarsi dalla solita consuetudine. Sono stati scelti 10 film ambientati parzialmente o totalmente nei giorni di Natale ma non sempre connessi a questo periodo o non incentrati totalmente su di esso. O semplicemente meno conosciuti. Soprattutto un’occasione per ricordare, consigliare, associare al Natale film celebri o meno, viaggiando tra epoche e luoghi diversi.
10 Film per Natale
Scrivimi fermo posta – Ernst Lubitsch (1940)
Alfred Kralik lavora come commesso in un negozio di articoli in pelle a Budapest, gestito dal signor Matuschek, di cui porta anche il nome. In quello stesso periodo si sta scambiando una fitta corrispondenza epistolare con una ragazza che non ha mai incontrato e di cui non conosce il nome. Veniamo a scoprire che la misteriosa ragazza risponde al nome di Klara Novak, nuova commessa proprio del negozio di Matuschek. I due continuano ad ignorare l’identità del rispettivo corrispondente e più si innamorano tramite le lettere, più si detestano nella realtà.
Tratto da un’opera teatrale del commediografo ungherese Miklós László, Scrivimi fermo postaè una brillante commedia che vede protagonista James Stewart. Come spesso accade nel cinema di Lubitsch, l’ambientazione è europea, in una Budapest che sembra sospesa nel tempo e nello spazio, lontana dagli orrori e dalla brutalità della guerra che stava sconvolgendo il continente. Un film da camera, ambientato quasi esclusivamente in un negozio di articoli in pelle dall’aria nostalgica e suggestiva. È gestito ed inquadrato sapientemente dal regista tedesco, che ne fa luogo di fascinazione e di mille vicessitudini, ampliandone simbolicamente le pareti.
Ricco di equivoci, di situazioni e dialoghi brillanti e di fini allusioni, il film si svolge nel periodo festivo dicembrino, concludendosi la sera della vigilia di Natale. Il perfetto meccanismo narrativo a due, che esplora l’inganno delle apparenze, è arricchito da personaggi e trame secondarie irreprensibili. Come l’escalation di Pepi, il simpatico fattorino, le vicende del signor Matuschek e il sodale Pirovitch. Il film ha avuto vari remake, tra cui C’è posta per te, con Tom Hanks e Meg Ryan.
L’appartamento – Billy Wilder (1960)
C.C. Baxter, soprannominato Buddy Boy (Ciocciobello in italiano), è un impiegato di una compagnia di assicurazioni di New York. Fa carriera concedendo il suo piccolo appartamento vicino Central Park, in cui vive solo, ai dirigenti, per i loro incontri extraconiugali. In quei momenti rimane a lavoro per degli straordinari non pagati o va in giro per la città, al freddo del clima invernale. Fino a che non si innamora di Fran Kubelik, ascensorista del grattacielo in cui lavora.
Tra i massimi capolavori di Billy Wilder e della commedia cinematografica, l’appartamento a cui fa riferimento il titolo è quello del protagonista, C.C. Baxter. Un uomo servile che non sa dir di no ai suoi superiori e concede la propria casa per i loro incontri extraconiugali. Così finisce con l’annullamento della propria persona, impegnato a gestire gli appuntamenti durante gli orari di lavoro, facendolo diventare il suo reale impiego, e girovago, a fine giornata, nella fredda notte di New York aspettando che l’appartamento si liberi. Fa tutto questo sperando di scalare i gradini della compagnia in cui lavora, in una società basata sulla prevaricazione, sul successo come meta unica e finale. Uno scenario rappresentato finemente dalla verticalità del grattacielo, con i numeri dei piani come orgoglio e obiettivo, e dalla scrivania di Baxter, soffocata tra centinaia uguali e disposte in fine ordinate e rigorose.
Se a questo aggiungiamo il tentato suicidio di Fran, molla che fa scattare la trama sentimentale, tutto penseremmo fuorchè ad una commedia. Eppure Billy Wilder e I.A.L. Diamond ne hanno scritto in modo romantico, delizioso e ironico, facendone un film dalle dinamiche perfette. Ricco di situazioni e dialoghi brillanti ed irresistibili, è impreziosito dalle interpretazioni di una incantevole Shirley MacLaine e di Jack Lemmon, vero mattatore. È la scintilla dell’amore che scuote Baxter dal torpore e che lo spinge a cercare di riappropriarsi della propria vita, della propria umanità e del proprio appartamento, che ne è metafora. La bravura di Billy Wilder non è visibile solo nella sceneggiatura, ma anche in una regia capace di organizzare ed inquadrare i luoghi in modo impeccabile, dagli uffici all’appartamento, in particolare. Così come nella gestione delle numerose situazioni brillanti, che coinvolgono anche i personaggi secondari, come i siparietti con i vicini di casa.
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10 film per Natale
Fanny e Alexander – Ingmar Bergman (1982)
Nel 1907, in una città di provincia svedese, la famiglia Ekdhal festeggia il Natale nella sontuosa casa di nonna Helena. I numerosi figli, nipoti e parenti si ritrovano così insieme. Successivamente una malattia porta alla morte Oscar, il padre di Fanny e Alexander, e la loro madre finisce per sposare il vescovo Vergérus. La nuova vita però rivela cambiamenti bruschi e una condizione che si fa sempre più proibitiva.
Fanny e Alexandernasce come progetto televisivo con una durata di cinque ore, ma fu convertito anche in una versione cinematografica alquanto accorciata. Divenne così il film che sancì l’addio al cinema di Bergman, che si dedicò successivamente alla televisione, nonché uno tra i punti più alti della sua straordinaria carriera. Un’opera dalle forti tinte autobiografiche, in cui il regista svedese ripercorre la propria infanzia ponendosi nei panni di Alexander, a volte protagonista e altre spettatore. Il tormentato rapporto con il padre viene esplicitato tramite il personaggio del patrigno, dal temperamento austero e dai modi violenti. Una figura da cui Bergman non riesce a liberarsi.
L’universo del sogno e del ricordo è popolato da fantasmi di cui si odono i racconti e di cui si vedono i corpi e dalle ombre della lanterna magica con cui giocano i bambini. Un’atmosfera fantasmatica, conferita ad un’elegia di grandiosa complessità e fascinazione, un’apologia sull’infanzia e sul rapporto tra arte e vita, divisa in atti fortemente contrastanti. Tutta la prima parte si svolge nell’arco di poche ore, senza fornire una linea narrativa e rappresentando un magnifico affresco barocco sul microcosmo famigliare, organizzato da Bergman con la realizzazione di quelli che sembrano dipinti o cartoline d’epoca animate. Si passa dalla casa sontuosa e colorata di Helena, affollata da decine di parenti, all’abitazione apatica, fredda e grigia di Vergérus. Straordinaria anche la fotografia del sodale Sven Nykvist, dominata dal colore intenso di quel rosso che arriva direttamente dall’interno dell’anima, come spesso nei film a colori di Bergman.
Brazil – Terry Gilliam (1985)
In un periodo imprecisato del ventesimo secolo, Sam Lowry è un semplice impiegato del Ministero dell’Informazione, in una società minacciata costantemente da attacchi terroristici. Accetta la promozione che gli viene offerta per poter rintracciare una donna che gli appare in sogno e di cui si è perdutamente innamorato. Quando riesce a trovarla sarà condotto in una serie di avventure che lo porranno in pericolo.
Con il suo terzo film da regista una volta abbandonati i Monty Python, Terry Gilliam in Brazil dà ampio sfogo alla propria immaginazione, in un racconto di fantascienza a tinte satiriche e grottesche che unisce le più disparate ispirazioni. Da Fellini a Orwell, Metropolis di Lang, il cinema noir e La corazzata Potëmkin di Ėjzenštejn. Quello mostrato nel film è un futuro distopico completamente disumanizzato, dove cavi, tubi e macchinari sovrastano tutto. In cui i contatti umani e l’empatia sono totalmente azzerati e sostituiti da pratiche e ricevute. Ma più che un futuro fantascientifico e lontano, Gilliam ritrae perfettamente un presente mai così reale, oppresso dalla burocrazia e dal consumismo.
A distanza di 35 anni, le frasi e le situazioni così ciniche e grottesche risultano ancora di un’attualità e intelligibilità sorprendenti. Come la deriva della chirurgia plastica o la bambina che a Babbo Natale chiede una carta di credito propria. In questo decadentismo infernale, il protagonista si aggrappa al sogno e all’amore, con la ricerca affannata di quella ragazza che gli appare in sogno ogni notte. Tentando di legare il piano onirico a quello reale e anche di ribaltarli, perché è solo lì che si può trovare un lieto fine.
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10 film per Natale
Batman Returns – Tim Burton (1992)
Nel periodo di Natale, due genitori assistono alla nascita di un bambino deforme e violento. Terrorizzati ed in pensiero per la propria reputazione, lo abbandonano nelle acque di un fiume. Trent’anni dopo, quel bambino, cresciuto da un gruppo di pinguini dello zoo, vive nelle fogne ed è chiamato Pinguino. Il giorno dell’accensione dell’albero di Natale a Gotham, riemerge in superficie per ottenere una riabilitazione e si allea con Max Shreck, magnate dell’industria. Il piano è quello di far diventare Pinguino il nuovo sindaco e distruggere Batman che tenta di ostacolarli. Nel frattempo, a Gotham fa l’apparizione una nuova misteriosa figura: Catwoman.
Batman Returns è un film fortemente caratterizzato visivamente, con una densa atmosfera formata dalla scenografia, vera e propria costruzione di spazio totale, e dalla forte oscurità in cui è avvolto. Come e ancor più di molta della produzione di Burton è influenzato dalle ombre e tenebre dell’espressionismo e Gotham fa eco alla Metropolis di Fritz Lang. Ma il legame non è solo scenografico, viene ripreso quel senso di verticalità pregnante su cui si basa il film tedesco. Dopo il prologo, le immagini delle grate delle fogne da cui spuntano le mani di Pinguino e la carrellata che dalla strada, in cui viene acceso l’albero, conduce ai vertici del grattacielo riconducono immediatamente a quella prospettiva. Una verticalità che è anche sociale, con Pinguino che è l’emarginato che abita nel sottosuolo e con l’élite del potere cittadino, tra cui il sindaco e ancor più Shreck, che sovrasta la folla dall’alto degli uffici.
Poco dopo, è proprio in seguito ad una caduta da quegli uffici che prende vita Catwoman, una figura che Burton anticipa iconograficamente con inquadrature del volto di Selina in cui gli occhiali e la loro ombra richiamano l’evoluzione che avrà da lì a poco. Vengono esplorati i temi del freak e del caos anarchico volto a sovvertire l’ordine, in aggiunta a personaggi come Pinguino, dalle reminiscenze caligaresche. Ma soprattutto Catwoman, che ruba la scena anche a Batman con una sensuale e tenebrosa Michelle Pfeiffer, protagonista di alcuni dei momenti più iconici. Il film è pervaso da maschere e simboli – quello del gatto che accompagna Catwoman ricorre più del pipistrello – e c’è un forte gioco di incontri scontri tra le due coppie che sorreggono il racconto: Catwoman/Batman e Pinguino/Shreck.
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Eyes Wide Shut – Stanley Kubrick (1999)
Ad una festa prenatalizia, Bill e Alice si notano l’un l’altra mentre parlano lascivamente con due ragazze ed un uomo. La sera successiva la coppia ha un acceso litigio e Alice confessa di aver pensato di tradirlo in passato. Bill ne rimane sconvolto e dopo aver fatto visita alla famiglia di un suo conoscente appena morto, vaga per una New York notturna, facendo strani incontri e capitando ad una festa misteriosa.
Tratto dal romanzo Doppio sogno di Schnitzler, Eyes Wide Shutè l’ultimo film di Stanley Kubrick ed appare come la perfetta conclusione ed il più intenso viaggio nella psiche e nell’inquietudine, probabilmente più anche di Shining. Sin dalle prime sequenze siamo trascinati da un senso di erotismo e di lugubre tensione. Eros e Thanatos, che accrescono inesorabilmente e si alternano fondendosi in una danza onirica. Il primo passo di questo viaggio sono i segni di una crisi matrimoniale tra Bill e Alice, Tom Cruise e Nicole Kidman. La coppia simbolo di Hollywood, in quel periodo.
La crisi arriva a toccare e a far trapelare le pulsioni e i desideri sessuali reconditi, che vengono vissuti proprio tramite i sogni. Quelli dichiarati di Alice e quelli apparentemente reali che avvolgono Bill nelle notti newyorchesi. I suoi vagabondaggi diventano quasi un’Odissea, una discesa dantesca nella psiche e tra gli impulsi più celati. Alice ne è esclusa solo apparentemente e le esperienze arrivano a confondersi e persino rovesciarsi. Kubrick crea inquadrature stilisticamente esemplari, che al loro interno replicano e rilanciano l’ambiguità che avvolge il film. Nel loro essere autoconclusive e al tempo stesso dense di mistero e collegate ad un oltre, perdendosi nel blu innaturale e onirico che penetra dalle finestre, le immagini riflettono la natura del doppio a cui si lega anche il sogno.
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Tokyo Godfathers – Satoshi Kon (2003)
Miyuki, una ragazza scappata di casa, Hana, un travestito, e Gin, alcolista, sono tre senzatetto che la vigilia di Natale trovano una bambina abbandonata nell’immondizia. Invece che portarla alla polizia, decidono inizialmente di tenerla con loro e la mattina seguente si mettono in viaggio per trovare la madre. Ha inizio una serie di peripezie che li porta ad attraversare in lungo e in largo la città.
Tra i maestri dell’animazione giapponese al pari di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, Kon si basa sul racconto The Three Godfathers di Peter B. Kyne, portato sullo schermo anche da John Ford con In nome di Dio del 1948. Un film dalla forma fiabesca che si avvicina alle atmosfere dickensiane e ai film di Frank Capra, virate nello stile diretto e affilato tipicamente giapponese. I tre protagonisti sono degli emarginati sociali, in lotta per la sopravvivenza, che trovano riscatto intraprendendo un viaggio il giorno di Natale. Come tre Magi scalcagnati, seguono la stella del destino e i pochi indizi che riescono a racimolare per riportare il dono più grande alla propria madre.
Il viaggio, come spesso accade, è l’occasione per il confronto con i fantasmi del passato, fatti di errori ed ossessioni, con cui tutti e tre i personaggi hanno a che fare. In un candore natalizio che appare torbido e onirico, i protagonisti si prendono la scena tra sfumature ironiche, drammatiche e ricche d’azione. Ed è con la loro vitalità che la solitudine e la malinconia vengono dissolte, in un racconto d’amore e di speranza.
Apple Tv, Amazon Prime
10 film per Natale
2046 – Wong Kar-wai (2004)
Un giornalista e scrittore, Chow Mo-wan, ritorna ad Hong Kong e sceglie di vivere in un albergo, alla stanza di fianco alla 2046, numero per lui colmo di significato. Ancora distrutto dalla delusione di aver perso il suo grande amore, tenta di colmare il vuoto scrivendo romanzi erotici e frequentando numerose donne. Scrive inoltre un racconto di fantascienza, dove inserisce i propri ricordi e i propri sogni.
Il film si pone come seguito ideale di In the Mood for Love, realizzato quattro anni prima, riprendendone il protagonista e il suo tormento per la delusione d’amore. Ma più che un sequel ne diventa una sovrapposizione introspettiva e indipendente. Quasi come un salto nella tana del Bianconiglio, quella camera 2046 in cui nel film precedente si incontravano i protagonisti per evitare i pettegolezzi. La sottile sensualità di In the Mood for Love si trasforma qui in un più perspicuo erotismo. 2046 è anche un libro, una data, un treno. È il luogo in cui abitano i ricordi e da cui è difficile far ritorno. E come tale, le linee narrative si sovrappongono fondendosi.
Influenzato da Godard e Antonioni, Wong Kar-waicura con ancor più precisione l’aspetto visivo e la costruzione delle inquadrature. Immagini rarefatte e prismatiche in un’esplosione estetica. Nonostante il tempo appaia come un flusso, si lega però a numeri e date precise e ricorrenti. Come il 24 dicembre, che torna quattro volte, tra il 1966 e il 1969, e, appunto, il 2046. Date che hanno un importante riferimento, come viene svelato dopo il finale; il 24 dicembre 1941 Hong Kong fu occupata dai giapponesi, a seguito della vittoria della guerra e il 2046 è la data in cui il paese si riallineerà alla Cina. Si aggiunge così un ulteriore e ribollente sottotesto dal valore storico e sociale.
Racconto di Natale – Arnaud Desplechin (2008)
Nel prologo il figlio di una coppia si ammala gravemente e i genitori decidono di mettere al mondo un nuovo figlio, sperando sia compatibile per il trapianto di midollo osseo. Ma anche lui, come genitori e sorella, risulta incompatibile e il bambino muore dopo pochi mesi. La famiglia non si riprenderà mai del tutto dalla tragedia. Molti anni dopo la madre scopre di avere la stessa malattia e cerca un donatore tra i figli, ormai cresciuti e alle prese con una vita travagliata. La famiglia si ritrova riunita dopo molto tempo per festeggiare il Natale in casa dei genitori.
Racconto di Natale è un romanzo, una pièce teatrale, un film matrioska allo stesso tempo. Un’opera fiume in cui Arnaud Desplechin riesce a condensare un’infinità di sfumature che ruotano attorno ai temi della famiglia, del dolore, del passato. Lo fa con estrema purezza e delicatezza, nonostante il soggetto sembri profondamente drammatico, avvicinandosi più ad una commedia sul dramma delle relazioni familiari, in cui non mancano momenti leggeri ed ironici. Alcuni tratti del racconto lo avvicinano a I Tenenbaum di Wes Anderson o anche al Bergman di Fanny e Alexanderdi cui sopra.
L’anima del film sembra quasi ricondursi al temperamento melanconico di cui parlò, tra gli altri, Aristotele e che veniva associato all’ambito artistico e scientifico, elementi che non a caso si collegano ad alcuni dei personaggi. Quel tratto umorale caratterizzato da tristezza, malinconia, follia fino ad arrivare alla malattia. Ed è una condizione che tocca molti dei membri della famiglia Vuillard. Una scintilla che sembra idealmente nata con la morte del figlio piccolo, ormai molti anni addietro, che non è stata mai superata e che ha creato dei traumi ancora ben radicati. Con grande abilità, Desplechin costruisce un racconto che ne contiene e ne amalgama molti altri, in modo comunque compiuto e brillante. Il perno rimane la figura della madre, una Catherine Deneuve qui in una delle sue interpretazioni migliori.
Carol – Todd Haynes (2015)
Nella New York degli anni ’50, Therese è una giovane commessa di un grande magazzino che sogna di diventare fotografa. Durante il periodo natalizio fa la conoscenza di Carol, una donna affascinante intrappolata in un matrimonio infelice, in cerca di un regalo per la figlia e servita proprio da Therese. Tra le due donne si crea subito un legame ed iniziano a frequentarsi. L’amicizia si trasforma ben presto in un forte amore, ma la loro strada non sarà semplice, costrette tra le convenzioni della società e il marito di Carol che farà di tutto per non lasciarla andare.
Il film di Haynes non ha niente a che fare con A Christmas Carol di Charles Dickens, ma rimane un canto d’amore dirompente e malinconico. Un’opera, più che sulle parole, improntata sui gesti, sugli sguardi, sulle mani. Non a caso il guanto è l’elemento-scusa che consente alle due donne di rivedersi dopo il primo incontro. Il loro legame è da subito fortissimo e sfocia in un rapido e inesorabile avvicinamento e innamoramento. Sin dal primo sguardo, appunto, che si scambiano, individuandosi e calamitandosi tra la folla. Carol e Therese sono due donne apparentemente ed esternamente molto diverse. L’una adulta, bionda, intraprendente, l’altra molto più giovane, castana, timida. Ma i ritratti caratteriali nel corso del racconto si fanno mutevoli, confusi, persino intercambiabili.
Siamo negli anni ’50 e le costrizioni conformistiche sociali rappresentano un ostacolo che sembra quasi insuperabile. Haynes traduce questo senso di oppressione inquadrando spesso i personaggi in profondità di campo, racchiusi tra pareti, porte, corridoi, restringendo l’inquadratura. Un amore e una consapevolezza repressi, nel tentativo di liberazione. Al tempo stesso i volti in molte occasioni vengono osservati attraverso un vetro, che sia un finestrino o una vetrina; sottile e invisibile barriera e fragilità imposta. Vitrei sono anche i colori, soprattutto in alcune sequenze legate allo sguardo o all’interiorità di Therese, ricordando il cinema di Kieslowski. Carol è dunque un melodramma di rara eleganza e raffinatezza, messo in scena in modo poetico e affascinante, che si avvale delle straordinarie interpretazioni di Cate Blanchett e Rooney Mara.