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Reviews

RIFF, decima edizione: “North Atlantic”, “All That I Love”, “180°”

RIFF, decima edizione. Un documentario e due lungometraggi stranieri: “North Atlantic”, “All That I Love”, “180°”. A cura di Angelo Mozzetta.

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North Atlantic di Bernardo Nascimiento

L’esordiente Bernardo Nascimiento, portoghese, racconta la storia vera di James Composton e del controllore di volo con cui strinse amicizia, volando alla deriva nei cieli a nord dell’Oceano Atlantico. Grande successo per questo documentario che circola da almeno un annetto, ricevendo numerosi consensi, non ultimo quello del 2010 del London Film Festival. Uno sguardo poetico sulla solitudine dei due protagonisti che, di fronte ad un ineluttabile destino, possono soltanto tenersi compagnia. Come un figlio farebbe con un padre, verrebbe da dire, vista la differenza d’età fra i due, entrambi costretti nell’incomunicabilità di una cabina singola. Ma anche una visione dell’amicizia forte e ben definita, sintetizzata dal suono di una chitarra che serve a tener compagnia ad un uomo nei grandi momenti di solitudine che precedono la morte. Non sarà un caso allora che al sottoscritto, più che altre pellicole, questo film richiami le malinconiche atmosfere delle ballate di De Andrè.

All That I Love di Jacek Borcuch

Polonia 1981: all’alba di Solidarnosc ed in piena legge marziale, il giovane Janek fonda un gruppo punk-rock ATIL, acronimo del titolo. I loro testi, che parlano di libertà e delusione nei confronti del socialismo, non sono visti di buon occhio dai militari aderenti al regime. Anche il padre di Janek è un militare (anche se non sordo alle contraddizioni del potere che serve), e questo gli crea problemi con Basia, il cui padre è stato fatto prigioniero dal governo in quanto membro attivo di Solidarnosc.

Candidato all’Oscar come miglior film straniero polacco, All That I Love è una pellicola sulla perdita dell’innocenza e il passaggio all’età adulta, raccontato attraverso una ripetuta serie di “prime volte”: il primo concerto, il primo rapporto sessuale, la prima sbornia, la prima delusione, la prima ribellione, il primo amore.

Borcuc fotografa nei sentimenti contrastanti del passaggio all’età adulta di Janek quelli di una generazione in bilico, intenzionata cercare una terza via per non rinunciare a nulla di ciò che sente suo (“All That I Love”, appunto). Così la rivoluzione non si presenta tanto come gesto politico quanto come l’atto spontaneo (il concerto) di chi reagisce ai soprusi della dittatura, rivendicando il suo diritto d’espressione. E sono i giovani a stimolare i vecchi.

I militari sono di due tipi: quelli illuminati come il padre di Janek, che non si ribellano anche se sanno, e quelli grigi e tristi come il cornificato marito dell’amante di Janek, che pensano soltanto alla conservazione di un potere di cui possono anche abusare. Invece il punk-rockka (come lo chiamano loro) è lo strumento di ribellione con il quale gli ATIL possono dar voce alla loro generazione, arma più potente della mazza da hockey di Janek: al punk non interessa la tecnica ma, come diceva Ferretti versione-CCCP: “Ci interessa solo l’anima di chi suona”. E l’anima di Janek è punk quasi in tutto: delusa, ribelle, giovane, rivoluzionaria ma non distruttiva, perché, nonostante qualche punta di anarchia, cerca di costruirsi il proprio futuro.

180° di Cihan Inan

Il regista svizzero di origini turche Cihan Inan gira un film doppiamente personale: innanzitutto è il film del riscatto, dopo che il materiale del suo primo lavoro (Pelotudo, ispirato ad un romanzo di Nick Cave) è stato curiosamente rubato, in secondo luogo perché 180° parla, fra le altre cose, della Svizzera multiculturale e dei problemi di integrazione che ha vissuto. Il film parte da ordinarie storie di quotidianità per poi dividersi in due trame distinte: in una si incrociano i destini di una famiglia turca e di una tedesca con quelli di una coppia di giovani, che investe in un incidente i figli di entrambe, l’altra è la discesa verso l’inferno di un capoufficio che reagisce al mobbing subito (nonostante sia un superiore), andando a lavoro con un fucile e facendo fuori quattro colleghi. Due storie che non interagiscono fra loro, ma che sono figlie della stessa madre: in entrambi i casi la ripetizione della quotidianità viene rotta all’improvviso, tramortita da un colpo di fucile o investita da un autobus.

La struttura e la costruzione richiamano il Crash di Paul Haggis (2004) e America oggi di Robert Altman (1993); anche i contenuti sono simili, ma Inan prende la sua strada: se Crash affrontava varie facce del razzismo, e America oggi la quieta disperazione della quotidianità (nello specifico della provincia americana), 180° punta con efficacia il dito su entrambi gli aspetti per parlare di un tema ancora più assoluto: l’incomunicabilità. Memorabile e particolarmente significativa la scena in cui la madre della ragazza tedesca incontra il padre del ragazzo turco, ancora in coma, nella sua stanza d’ospedale,: pur nell’impossibilità di dirsi ciò che vogliono poiché non parlano la stessa lingua, i due cercano di interrelazionarsi con qualsiasi mezzo, anche a gesti. Forse il messaggio non è propriamente corretto, ma cosa importa se finalmente per entrambi c’è la voglia di comunicare?

Angelo Mozzetta

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