Questa volta fa davvero male. In un anno mesto e infame, funestato da lutti a non finire, la pandemia da covid-19 si è portata via uno dei registi più importanti del panorama contemporaneo, il primo che ha sdoganato e portato alla ribalta dei più importanti festival internazionali il cinema sudcoreano.
Kim Ki-duk è morto a Riga, in Lettonia, l’11 dicembre, a neanche sessant’anni, che avrebbe compiuto il prossimo 20 dicembre.
Un cineasta più amato e apprezzato in Europa che a casa sua, dove era sempre rimasto un outsider, fuori dal circuito mainstream ma anche ai margini di quello più autoriale.
Tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio Kim Ki-duk si è fatto conoscere e apprezzare nei principali festival europei, compresa la Mostra del Cinema di Venezia che vent’anni fa lo volle in Concorso con L’isola, il suo quarto lungometraggio destinato a scioccare e sconvolgere il pubblico e gli addetti ai lavori.
Incredibile a dirsi, negli anni successivi i suoi film iniziano a trovare una regolare distribuzione nelle nostre sale, a partire da Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, uno dei suoi titoli più celebrati e amati dal pubblico.
A ripensarci oggi, in anni in cui il cinema coreano e asiatico in generale fatica immensamente a uscire in sala e a trovare un pubblico di riferimento, sembra quasi un miracolo quanto accaduto negli anni zero del nuovo millennio, coi film di Kim Ki-duk che non solo uscivano al cinema ma ottenevano pure un discreto – se non ottimo – riscontro commerciale nei circuiti di qualità e nelle sale d’essai.
Chi ha visto sul grande schermo film come La samaritana, Ferro 3 – La casa vuota, L’arco, si ricorderà che non era affatto strano trovare sale gremite, segno evidente e cristallino dell’amore e dell’affetto del pubblico di casa nostra per questo cineasta coreano, piuttosto prolifico e inquieto. Sono gli anni della sua maturità, di una fase artistica vitale e ispirata, di un cinema irrequieto e tormentato che ha sempre privilegiato le immagini e gli stati d’animo alla parola e ai dialoghi.
I protagonisti di alcuni suoi lavori rinunciano completamente alla parola, si fanno muti e silenziosi, inquieti e sofferti come il suo autore che ha quasi sempre realizzato film sghembi e obliqui, talvolta irrisolti, intrisi di dolore e di malessere esistenziale, con al centro un’umanità disperata e sofferente, capace di gesti di incredibile dolcezza e tenerezza ma anche di atti di spietata crudeltà e di violenza ferina nei confronti degli altri o di se stessi.
La solitudine è una conditio esistenziale quasi obbligata per le anime che popolano i suoi film, il dolore, il desiderio e la sofferenza sembrano far parte dell’essere umano in modo atavico e ineluttabile. Kim Ki-duk non ha mai fatto un cinema edulcorato o pacificato, è sempre stato un istintivo, un autore ruvido e terragno con slanci spirituali destinati al fallimento a causa di una visione cupa e pessimista dell’animo umano.
I suoi personaggi stanno lì a dimostrarlo, sono quasi sempre degli emarginati, dei perdenti, degli esclusi e dei folli incapaci di adattarsi alle regole e ai dettami di una società ipocrita e malata, cinica e violenta, carica di odio, rabbia e frustrazione. Una società che si accanisce sui più deboli, che non tollera i diversi, che non ha pietà per chi non si vuole piegare e conformare alle leggi, ai pensieri, agli usi e ai costumi del cosiddetto vivere civile.
Dopo essere stato amato dalla critica e dal pubblico, dai festival che gli hanno tributato diversi riconoscimenti come l’Orso d’Argento per La Samaritana e il Leone d’Oro per Pietà, nella sua ultima fase artistica, più scivolosa e discontinua, è stato quasi respinto e rifiutato come i personaggi dei suoi film, talvolta denigrato e sbertucciato da chi in precedenza lo aveva osannato.
Eppure, anche nei suoi lavori più confusi, spiazzanti o irrisolti, c’era sempre qualche scintilla, qualche bagliore di cinema puro. Come anche in Arirang, intenso e doloroso documentario autobiografico in cui si metteva a nudo e svelava la crisi e i tormenti interiori seguiti al drammatico incidente avvenuto sul set di Dream, in cui un’attrice aveva rischiato di morire soffocata.
Con gli anni il suo cinema era mutato, si era fatto più “sciatto”, meno curato e meno attento alle mode e alle esigenze del momento, più sporco e ancor più oscuro e disperato.
Adesso che improvvisamente non c’è più, la sua assenza crea un vuoto che addolora e imbarazza, ci costringe a versare lacrime di coccodrillo, proprio perché negli ultimi anni ci eravamo dimenticati di lui e del suo cinema, di cui invece abbiamo ancora un gran bisogno e che abbiamo scoperto di amare ancora in modo viscerale.
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The Net di Kim Ki-duk