L’iperrealismo di Amore tossico (1983) non trova a tutt’oggi equivalenti che possano accostarvisi per intensità e profondità d’osservazione. Crudezza delle immagini a parte, Caligari è riuscito a rappresentare con nitidezza il microcosmo dei tossicodipendenti raccontandolo dall’interno. Da questa originale ricognizione emergono l’umanità e la sofferenza di uomini e donne avviluppati in una spirale vorticosa, quella dell’eroina, che se da un lato crea un vuoto in cui non si può che sprofondare, dall’altro, paradossalmente, lo riempie, dettando i tempi e i modi di uno stile di vita ben determinato. Procurarsi una dose ad ogni costo è il diktat quotidiano che sostiene le cadenze esistenziali dei protagonisti.
All’epoca il regista selezionò veri ex-tossicodipendenti che con lui collaborarono alla sceneggiatura, aiutandolo a cogliere quelle zone d’ombre da sempre ignorate. Cesare, il protagonista, ci conduce in un girone infernale fatto di prostitute, magnaccia, povertà e degrado. E colpisce la sua capacità nel non affondare completamente e mantenere un certo grado di dignità nonostante tutto. Ed è proprio Cesare Ferretti il migliore per performance attoriale, come nel toccante monologo in cui racconta un periodo particolarmente duro, di quando stava “a rota persa”.
Lo slang assume un ruolo essenziale nel restituire stati emotivi di un mondo che, in virtù delle sue esigenze e dei suoi scopi, crea un linguaggio innovativo, al quale Pasolini avrebbe sicuramente riconosciuto valore culturale. Premio “De Sica” a Venezia nel 1983.
Luca Biscontini
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