David Lynch è oramai approdato ad un espressionismo astratto che ha trovato persino il suo equilibrio nella forma-racconto: e nello stesso tempo l’opera è fruibile come un qualsiasi audiovisivo tradizionale, pur sempre un capolavoro, ma anche come esercizio di stile, affascinante e bellissimo, nei confronti del quale ogni tentativo di decodifica è inutile quanto entusiasmante.
Certo è che lo straniamento e il disorientamento maggiori, nelle sue opere d’arte, si ottengono quando dal subconscio messo in pratica tramite l’astrattismo si arriva ad una stentata razionalità.
Secondo queste linee, generiche e assolutamente arbitrarie, si può provare a descrivere WHAT DID JACK DO?: cortometraggio ambientato in una stanza, una specie di saletta interna ad una stazione ferroviaria.
Dalla finestra sullo sfondo si scorge un panorama uscito da un classico hard boiled anni 40: il resto è tutto formato da misteri, linguaggi criptati e nuvole di fumo, con un interrogatorio che sembra un test per capire se davanti al feticcio umano ci sia un essere umano i una creatura inanimata.
E questo insieme di suggestioni può essere letto come la riflessione, non nuova in Lynch, sulla deformazione e sulla indefinitezza delle fattezze umane, un percorso che è passato dalla Laura Dern del terrificante primo piano in INLAND EMPIRE, dalla caffettiera in cui viene tramutato David Bowie in TWIN PEAKS, da Gordon Cole che nel sogno non riesce a vedere la faccia dell’agente Cooper, o in ultimo dai conigli di RABBIT, tutto rappresentato in un teatrino dell’assurdo spaventoso e slabbrato.
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