In programma al Bif&st 2021, Pinoè il sorprendente esordio alla regia di Walter Fasano, la cui capacità è quella di trasformare l’ammirazione nei confronti di Pino Pascali in un atto sciamanico, in grado di riportarne in vita lo sguardo e la sensibilità.
Nell’immagine iniziale ad accogliere lo spettatore è un cielo stellato e in sottofondo il rumore del mare. Un’associazione quella tra suono e immagine di per sè significativa della forma del tuo film. Ma non è tutto, perché la presenza dell’infinito contenuto in quel breve frammento, oltre a riassumere lo spirito dell’arte di Pino Pascali, ne coglie anche l’origine, riferendosi a un luogo e a una condizione alle quali egli cercava sempre di ritornare, essendonato e cresciuto in una città affacciata sul mare.
Se volessimo teorizzare – cosa che non sempre è utile fare – direi che gli elementipresenti nell’apertura del film servono a lanciare da subito alcuni interrogativi sull’esistenza in generale, e su quella di Pino Pascali in particolare. Nel farlo, era necessario collocare da subito questa storia in un ambito, come dire, fuori dal tempo. Il film si interroga spesso sul mistero dell’esistenza e della creazione delle cose, da dove vengano e in quale direzione procedano. Ovviamente anche sul mistero della creazione artistica. Per fortuna, lavorando sugli archetipi come anche Pino usava fare, ho potuto permettermi il lusso di procedere per massimi sistemi, perché comunque appartengono alla materia narrativa del film.
Pino ha una narrazione in parte ciclica, come lo è la risacca del mare presente nella sequenza introduttiva. Nel corso della visione, ci sono parole, versi e anche stilemi destinati a ritornare più volte. Tutto questo riporta in circolo l’immagine del mare, a cui Pino e il documentario di continuo si rivolgono.
Assolutamente sì, non avrei saputo dirlo meglio. É il ritorno di alcuni interrogativi, che nella vita vengono reiterati a causa della mancanza di risposte. Questo nel film crea un gioco di rimandi e di associazioni supportato dall’utilizzo di parole chiave che hanno validità, sia se legate alla specificità dell’aspetto biografico di Pino che ad aspetti più generali. Anche parole semplici come “galleria” diventano più aperte: vi si fa riferimento sia a proposito dei cunicoli del Muro Torto, il sottovia di Roma dove Pino perse la vita in un incidente, che delle gallerie d’arte che hanno ospitato le sue opere.
Pino ha soluzioni sonore e accostamenti visivi destinati a spezzare la linearità del racconto; il che predispone a un un approccio più emotivo che razionale. In più si tratta di scelte che ci portano dentro lo sguardo e l’animo del protagonista.
Intanto, ti ringrazio per averlo fatto notare: penso che in questo debbano consistere il desiderio e l’obiettivo di chi mette insieme immagini e suoni. Come montatore ho imparato che esiste una potenza indicibile e ineffabile che può scaturire da questi accostamenti.Farla venire fuori credo rappresenti per me, e per molti degli artisti con cui ho collaborato, una costante appassionante del lavoro.
Una ricerca costante porta a continue scoperte ed è meraviglioso sorprendersi nel vedere le direzioni inaspettate assunte dalle cose, nelle emozioni generate proprio da quegli accostamenti e da quelle idee, da quella ricerca. Del mio mestiere questa è una possibilità che mi interessa moltissimo. Dopodiché, da sempre con Luca Guadagnino abbiamo cercato di creare accostamenti in grado di suscitare nello spettatore delle reazioni forti. Ci interessa che lo sianoin termini spiazzanti, non consolatori, né convenzionali. A rischio di essere contestati, puntiamo sempre a creare qualcosa in grado di suscitare delle reazioni.
Ad attestare quanto dici, c’è l’associazione tra la galleria del muro torto dove Pino perse la vita e quella che oggi ospita i lavori dell’artista. Entrambe sono idealmente delle “tombe”; però sviluppano percorsi e significati per certi versi opposti, perché la seconda, una volta aperta, fa tornare in vita il protagonista attraverso le sue opere, mentre l’altra, richiudendosi sopra di lui, ce lo sottrae. Parliamo di un accostamento destinato aincidere sull’esposizione del corpo di Pino all’interno del film: lui è tanto più visibile quanto più si procede all’apertura dei colli da parte degli impiegati del museo.
Tutto questo fa parte di una drammaturgia su cui ho avuto il tempo di riflettere a lungo nei mesi di lavoro sul film: alcune volte vedendolo mi sono chiesto se davvero Pino si veda troppo tardi. Detto questo, le tue parole mi confortano, perché a te l’intenzione è arrivata limpidamente.
Per il resto, sì, sono d’accordo sul fatto che il magazzino in cui erano conservati i Bachi da Setola e la galleria del Muro Torto di Roma siano alcuni dei luoghi centrali di questa storia, in cui si ricongiungono presente e passato (e forse in qualche modo ci si proietta nel futuro, fosse anche un futuro alternativo, di possibilità in potenza). Forse può essere divertente raccontare che quando descrivevo il film a Pino Musi – l’artista che ha realizzato le fotografie originali del film – il riferimento era quello del finale de I Predatori dell’Arca perduta, in cui (al contrario del nostro caso) l’Arca dell’Alleanza veniva riposta e nascosta in un misterioso magazzino pieno di casse. Noi invece ci avviciniamo lentamente alle casse e le apriamo per far venire fuori i Bachi, e quindi Pino, partendo da dettagli misteriosissimi, alcuni perturbanti e simbolici, come ferri e croci.
Si tratta di associazioni edissociazioni capaci di trascendere ciò che vediamo per trasportarci su un piano di percezione alternativo. Quando questo accade si ha la sensazione di trovarsi di fronte a Pino Pascali, come se egli fosse ritornato in vita. Le immagini e i suoni diventano i suoi stessi sentimenti, il suo stesso sguardo. Ci si ritrova immersi nella sua stessa dimensione, in quel limbo che lo separa dal tempo in cui tornerà a casa; su quella spiaggia e in quel mare lasciato in giovane età per partire alla volta di Roma.
Avevo il desiderio di far rivivere il protagonista nello sguardo dello spettatore. Si tratta quasi di unaseduta spiritica in cui utilizzi un dispositivo, quello del cinema, pensato per favorire uno stato di suggestione, in cui sei portato a credere a qualcosa che va oltre quello che vedi e senti. E questo senza alcun intento manipolatorio o esclusivamente spettacolare. Ricordo di aver letto un racconto relativo a William S Burroughs…
Burroughs che peraltro è presente nel discorso del film
Non sarebbe potuto mancare. Attribuisco un mio ricordo, che mi ispira ed appassiona, a una lettura di Burroughs: ma potrei sbagliarmi e magari è tutta una mia fantasia su di lui. Nel mio ricordo lui scrive, o racconta,di un gruppo di scrittori o di personaggi che entrano in un Cineclub negli Anni Sessanta a New York, in cui proiettano La battaglia di Algeridi Gillo Pontecorvo. Ovviamente potrebbe essere anche un altro luogo e un altro film. Ebbene, per loro questa proiezione diventa una sorta di porta dimensionale che si origina proprio dalla proiezione sullo schermo. É un’idea che mi ispira e diverte profondamente. Il film comincia con un’immagine del cosmo, poi presenta continui varchi da attraversare, evocando la possibilità di trascendere dalla tua dimensione fisica, psicologica, per entrare in un’altra dimensione. É per questo che parlavamo di seduta spiritica. Ma si tratta di un proposito dolce, sincero e non manipolatorio, che si poggia sull’aspetto ipnotico ed onirico del cinema.
Tra l’altro, nel caleidoscopio di immagini, parole e visioni, a un certo punto c’è una citazione tratta da Il pasto nudo;mi riferisco al passo che recita: “Niente è vero, tutto è permesso”.
Che peraltro apriva il meraviglioso Naked Lunch di David Cronenberg. Comunque sì, vieneda lì ed è una frase già presente altre volte nei lavori, miei e di Luca. Secondo me è in sé una specie di mantra magico.
Il tuo film è girato in bianco e nero. A me è sembrato un binomio di colore dalla valenza metafisica. É cosi?
Probabilmente il bianco e nero contiene, più di altre forme espressive, una possibilità di trascendenza. E poi nel filmmi ha permesso di creare un effetto come in Schindler’s List, se pensi al cappottino rosso della bambina. Vieni fulminato dall’improvvisa apparizione del colore.
Nel caso di Pino, questo accade quando finalmente i Bachi da setola, l’opera di Pascali di cui raccontiamo il viaggio, finalmente tornano nel loro spazio a Polignano a Mare, oppure nella performance tratta da Libro di Santi di Roma eterna di Alfredo Leonardi, che era necessario lasciare nel suo colore 16mm del 1968 . E poi il bianco e nero è quello delle foto di Pino Musi, di La Jetée di Chris Marker, di Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais, che mi hanno ispirato nella costruzione del film. Quando costruisco un film ho sempre bisogno di vederne di bellissimi (possono anche essere bruttissimi, basta non siano stupidi). Negli Anni Sessanta, il colore al cinema esisteva già ma molti cineasti preferirono continuare a fare film in bianco e nero perché ritenevano fosse la dimensione più appropriata alle loro intenzioni espressive.
Pino era una persona creativa. La sfida da vincere era quella di riuscire a corrispondergli con un film che lo fosse altrettanto. Si può dire questo, sempre inteso in senso di adesione poetica e affettiva e non manipolatoria?
Il tentativo era quello, poi ai posteri l’ardua sentenza. Non potrei mai appaiare la mia creatività a quella di Pino.
Dal punto di vista mitologico la figura di Pino Pascali potrebbe essere paragonata a quella di James Dean. In un momento in cui parte del sistema tende a soffocare qualunque energia, un film come Pino ci ricorda l’importanza dell’arte come forza creativa, che fa da apripista alla comprensione del mondo e alla sua reinvenzione.
Nei limiti temporali che gli sono stati dati, Pascali l’ha affermato con il suo lavoro e anche con la sua testimonianza di vita. Forse questo è stato più limpido e chiaro, in generale, negli Anni Sessanta, che sono terminati nel Sessantotto: poi nel decennio successivo è cambiato tutto. Però sì, magari il film contenesse tutto ciò che dici! Anche solo ricordare quanto un atteggiamento creativo, aperto nei confronti della vita, possa rimettere in armonia le cose. Sarebbe fantastico se il film riuscisse anche solo un po’ a raccontare questo…
Nel film l’uso delle voci è determinante nell’evocare i sentimenti e le emozioni di cui stiamo parlando.Nel farlo ti sei servito di tre diverse interpreti.
Il film Pino è nato poliglotta: ho sempre immaginato ad esempio che il narratore principale dovesse essere di lingua inglese. Prima che a Suzanne Vega avevo pensato a un’attrice anglosassone, ma poi mi sono lasciato affascinare dalla possibilità che la voce potesse essere americana e questo mi ha divertito molto; una dizione ed una provenienza di questo tipo ha fatto slittare il film su un piano diverso. Più pop, se vuoi. Appena ho parlato al telefono con Suzanne per raccontarle del progetto ne ho avuto la conferma. Sono felicissimo del suo contributo, e la sessione di incisione è stata divertentissima. Sembrava di sentirla incidere un disco. E poi Suzanne è una poetessa. Ringrazio l’amico Valerio Piccolo per averci messo in contatto.
Il fatto poi di aver scelto due cantanti su tre voci – perché anche Alma Jodorowsky è una cantante – mi ha portato a pensare di poter modulare queste vocalità in termini melodici, dando vita ad un concerto di voci, suoni, rumori e musica. Anche se Suzanne e Alma non cantano, è come se lo facessero. In un teaser del film la voce di Suzanne su un groove della compositrice Nathalie Tanner sembra quasi un “rap”.
Alma recita versi di Rimbaud e si muove in un ambito poetico ed evocativo. Racconta un mio sogno ed altre riflessioni sparse. Infine c’è la nostra Monica Guerritore, che inizia leggendo il contratto relativo all’acquisizione dell’opera di Pascali da parte della Fondazione. Questo documento si presentava di per sé in una forma stranamente poetica, per cui il suo contenuto non è stato manipolato, ma entra nel film così com’è. Alla fine del film Monica interpreta per noi la testimonianza in morte di Pino di Palma Bucarelli, che di Pascali fu grande sostenitrice, ma anche i versi di una poesia di Montale che si chiama Casa sul mare. É un lusso poter fare film ispirandosi alla poesia.
Non posso dimenticare infine lo splendido Michele Riondino, nascostissimo e però pronto a restituirci un po’ della voce di Pascali, cui ha dato vita. Michele legge con trasporto e intelligenza alcune dichiarazioni da un intervista di Pino a Carla Lonzi realizzata alla fine degli Anni Sessanta, facendole sue.
Per sua natura Pino è un’opera multiforme e per questo impossibile da condensare in un unico concetto. Se lo schermo della sala è il luogo dove può trovare la sua massima espressione, ciò non toglie che il tuo film potrebbe collocarsi anche nel museo di Pino come valore aggiunto al discorso intorno alla sua opera. Non so se era un pensiero di cui hai tenuto conto in fase progettuale.
Uno dei problemi legati alle gallerie d’arte è che non sempre hanno gli standard tecnici per una buona proiezione. Da una parte, come dici, il film per sua vocazione trova la sua forma espressiva migliore sullo schermo di una sala. É anche vero però che i film, una volta terminati, è giusto che trovino la loro strada e quindi anche quella di essere proiettatiin una piccola galleria con un pessimo sonoro. Se ciò accadrà andrà bene così.
Questa è una domanda che avrei voluto fare a Luca Guadagnino e che oggi mi sembra giusto fare a te, sia come suo stretto collaboratore, sia perché anche Pino conferma la mia idea e cioè che uno dei contributi più importanti e innovativi del vostro cinema consista nella rivisitazione in chiave mitologica del paesaggio italiano. Da Io sono l’amore a Chiamami col tuo nome e adesso in Pino si ritrova questa potenza immaginifica. Secondo te, c’è questa cosa nel modo in cui te l’ho detta o sto esagerando?
Di sicuro posso dirti che è un aspetto a cui Luca tiene moltissimo, in maniera quasi programmatica, ma al tempo stesso anche molto naturale e spontanea. Un po’ come lo sono i suoi film, che nascono da idee radicali destinate a prendere forma grazie alla sua incredibile capacità demiurgica. Da questo punto di vista, lui è in ogni senso un creatore e un leader, perché riesce anche a farlo su film da molti milioni di euro. Per cui, sì, sono d’accordo con te. Se prendi Chiamami col tuo nome, il desiderio di ambientare il film in quel paesaggio “somewhere in Northern Italy” – in contrasto con quanto scritto nel libro di Aciman ambientato in una cittadina sul mare – viene dalla passione profonda e naturale di Luca per quella terra, che forse gli deriva dal cinema ancor prima che dalla vita. Perché Luca è siciliano, e la bassa padana è quella di Bernardo Bertolucci in Novecento e nella Tragedia di un uomo ridicolo.
Un po’ per miopia, un po’ per disinteresse, devo dire che l’attenzione al paesaggio in gran parte del cinema italiano (parlo del cinema mainstream e non di quello meno visto), è ormai quasi assente. L’idea di armonizzare e contestualizzare i personaggi nel paesaggio nasce in maniera forte con il Neorealismo. E penso successivamente ad Antonioni, da Gente del Po a L’Avventura o Deserto Rosso o persino Identificazione di una donna, con la sua Roma misteriosa, le nebbie, Venezia. Nel caso di Pino, un tema centrale è il ritorno alla terra come elemento primordiale, nonché alla propria terra. In questo sono stato aiutato anche da Pascali, utilizzando le fotografie che lui stesso aveva scattato, un vero e proprio taccuino d’appunti visivi, che costituiscono lo scheletro del film assieme alle foto “nuove” di Pino Musi in associazioni del tutto libere.
C’è poi il racconto sul ritorno dei Bachi a Polignano a Mare in quella location meravigliosa che è il Museo Pino Pascali: una vera e propria “liberazione”, evidenziata dalla presenza della luce “bianca ed abbagliante” dell’Adriatico di cui si parla all’inizio.
A questo punto non posso evitare di chiederti se hai intenzione di intraprendere una carriera da regista, confrontandoti anche con il cinema di finzione.
Ho sempre pensato che non sarei stato un buon regista.Lo penso ancora. Ammiroi registi con cui ho lavorato perché ritengo si tratti di un mestiere difficile. Al tempo stesso ho capito che il mio tentativo di uniformarmi a un certo tipo di immagine di regista non avrebbe mai funzionato. Per cui ho fatto un film, avrò il desiderio di farne altri, ma poco mi interessa la mistica del regista. Dunque la risposta è sì, ma potendolo fare un po’ a modo mio. Qualche idea c’è.
Ancora prima di chiudere: i tuoi modelli di riferimento in campo cinematografico o più semplicemente il cinema che ami di più.
Tutto il buon cinema di questi centoventi e passa anni. Il Cinema Muto, le Avanguardie. Ma anche gli Anni Settanta e Ottanta, in cui ero sempre al cinema e si è formato il mio gusto. E da cinefilo e poi studente gli Anni Sessanta, che hanno spalancato le porte di un cinema di grande libertà, trasgressione delle regole,innovazione. Tutte cose che mancano un po’ ad una certa produzione audiovisiva contemporanea, basata su un intrattenimento costoso ed elaborato, ma che ti lascia poco. Non è un caso che le serie televisive siano fatte per essere consumate in poche ore. Io a volte non riesco a vedere un film intero, perché è talmente denso: ne guardo venti minuti e poi mi devo fermare perché sto male, confuso e ansioso di capire quello che ho visto. Figuriamoci fare binge watching.