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RIFF 2010. Quattro cortometraggi italiani: “Tre ore”, “41”, “Eclissi di fine stagione”, “Lacrime nere”

Parte la decima edizione del RIFF: ecco i primi quattro cortometraggi recensiti da TAXI DRIVERS. A cura di Angelo Mozzetta

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41

(41 di Massimo Cappelli)

41 di Massimo Cappelli.

Un uomo solo (Ugo Dighero) passeggia fra le stanze di un museo, ascoltando annoiato la classica audioguida. Solo un particolare desta la sua attenzione: sugli altri visitatori appare un numero, come fossero anche loro delle opere. Digitando l’apparizione sull’audioguida, capisce che in mano non ha uno strumento comune…Opera dal sapore di una fantascienza che fu, girata sfruttando al massimo i buoni mezzi tecnici ed artistici a disposizione. Soggetto acuto, sviluppo furbo ma mai ruffiano: il regista Massimo Cappelli ama definirlo “thriller esistenziale”, definizione che calza a pennello ma esclude una componente importantissima per la funzionalità dell’opera: lo humor nero.

Suggestioni anni ’50, Philip K. Dick in primis: l’uomo come numero, la fatalità, la predestinazione come impossibilità di sottrarsi al proprio futuro, la curiosità, l’ossessione compulsiva, il troppo potere in mano ad un singolo individuo e il suo uso soggettivo e deviato. Il senso del paradosso degli sketch sui bambini ricalca quello dell’inizio di Io e Annie di Allen, ma il modello registico ricorda uno dei migliori John Carpenter (Essi Vivono, ad esempio), certo con una confezione digitale più curata, tanto nella fotografia quanto nella postproduzione. Perfetto Dighero nell’incarnare lo svogliato cinismo, la meschinità e la voglia di meraviglia del protagonista, ben sottolineate dalle scelte fotografiche sia con l’illuminazione che con la velata freddezza della temperatura-colore.

Tutto questo in soli 18 minuti: per fare buon cinema a volte basta l’idea.

Tre ore di Annarita Zambrano.

Annarita Zambrano, romana di nascita ma francese nell’attività registica, presenta al RIFF il suo primo corto in lingua italiana: Tre ore. Trama semplice ed efficace: padre e figlia si possono  incontrare soltanto per tre ore filate, perché lui è in carcere per omicidio.

Potremmo definire l’opera, senza timori di smentita, una bella incompiuta. Pro: l’abilità di costruire una storia complessa con quattro personaggi ben delineati (padre, figlia, madre e papà acquisito) usando in pratica soltanto un attore e mezzo (Rolando Ravello, sua figlia Sofia, e un breve cameo di Valentina Carnelutti) e cinque/sei inquadrature, raccordi esclusi. Un singolare rapporto padre-figlia più trasmesso che raccontato (come il cinema dovrebbe sempre riuscire a fare), che prende corpo nella verve di una curiosissima figlia senza peli sulla lingua e nell’amore di un papà nel ruolo di cattivo per caso. Contro: una vaghezza d’intenti di fondo che, se da principio regala soprattutto atmosfera e spunti di riflessione, nel finale delude palesandosi inconcludente.

La Zambrano mette in mostra uno stile registico già maturo ma, nonostante ciò, sembra non riuscire a racchiudere o definire la storia nella dimensione del cortometraggio, peccando di una scarsa incisività nelle conclusioni che va ben al di là del parafulmine-finale aperto. Peccato: un paio di ritocchi ed era un gioiellino.

Eclissi di fine stagione di Vito Palmieri.

Bibione, quando l’estate è finita. I turisti sono andati tutti via e rimangono soltanto gli addetti ai lavori, la maggior parte dei quali stranieri, moderna versione della malinconica Rimini dei Vitelloni, non fosse che loro cercano di guadagnarsi la giornata. Un’eclissi di sole darà a due di loro una piccola occasione di riscatto.

Fiaba moderna ambientata in un contesto grigio e straniante, in cui le piccole fortune capitano a chi non ha smesso di sognare. Non che i due albanesi protagonisti vengano baciati dalla fortuna, ma a differenza del loro grottesco capo ne sanno apprezzare le carezze. Opera che corre il rischio della banalità ma se ne distacca alla grande, grazie alla regia di Vito Palmieri abile soprattutto nel creare le atmosfere giuste, agendo per contrasto, quello fra i buoni sentimenti dei protagonisti ed una realtà piatta e ostile. Azzeccato e riuscito il finale, l’inventiva batte la povertà di mezzi 6-0. Azzeccati tutti gli attori, credibili nella scene malinconiche quanto divertenti nelle piccole gag.

Lacrime nere di Emanuela Rossi.

Nella Roma del 1953 Alexandre (Alessandro Haber), ex gerarca fascista sopravvissuto a Salò, è costretto a vivere con sua figlia Marina (Marina Rocco) in una comune stanza ammobiliata. Non riuscendo più ad ottenere il suo vecchio lavoro di professore di Inglese è costretto a fare da assistente per gli invalidi, attività dalla quale si sente profondamente umiliato. Il torbido ed ambiguo rapporto con la figlia, che cerca di “accasare” con un architetto, viene ancor più complicato dall’attrazione che Marina prova per un coetaneo del padre, l’ex deportato Di Porto (Colangeli): sarà l’inizio di un torbido viaggio verso il basso…

Struttura che soltanto apparentemente punta al facile scandalo dell’incesto, ai luoghi comuni sull’identico sadomasochismo di vittima e carnefice, al bunga-bunga quadrigenerazionale. In realtà questa è un’opera ricca di contenuti metatestuali: la figura di Marina assomiglia a quella di un’ingenua Italia del primo dopoguerra che non sa se credere ancora oppure no alla favola del fascismo, di cui è (e per sempre sarà) figlia legittima perversamente innamorata. O, riportandolo all’attualità, l’immagine di una giovane nazione che non riesce a distaccarsi da ideali ormai troppo vecchi per lei, come l’attuale partitocrazia che maschera le sue umanissime nefandezze nel  dualismo destra-sinistra. O ancora, una nazione che preferisce buttare dalla finestra gli orrori che furono per rintanarsi nella mafiosa retorica della “famigghia”.

Una sceneggiatura complessa e profonda che potrebbe benissimo trasformarsi in  piece teatrale per metalinguaggio e strutture parallele, a cui purtroppo non corrisponde una regia all’altezza; entrambe  sono firmate dall’esordiente Emanuela Rossi, sulle cui prospettive potremmo comunque scommettere. Montaggio blando, poca cura nelle inquadrature e scene d’azione non molto credibili, come la morte della madre di Marina o quella finale che non sveliamo: peccato perché, a partire dagli attori, i mezzi a disposizione erano ottimi.

Un paradosso sempre più raro nel cinema contemporaneo, molto meno in quello indipendente: il contenuto supera di gran lunga la forma. Ma ben vengano le ingenuità di Emanuela Rossi al cospetto di una creatività che palesa ambizione e coraggio.

Angelo Mozzetta

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