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Interviews

My America e il sogno americano al Torino Film Festival. Intervista alla regista Barbara Cupisti

Tra i documentari fuori concorso al 38° Torino Film Festival c'è "My America" della viareggina Barbara Cupisti, ormai residente in America da anni. In alcuni capitoli la regista, nata attrice, racconta un'America da un punto di vista diverso dal solito.

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Barbara Cupisti

Un documentario che scava nelle persone e nella loro emotività. Un’America vista da un occhio diverso e una riflessione non fine a sé stessa. Sono questi gli ingredienti del documentario fuori concorso al Torino Film Festival My America di Barbara Cupisti. La regista, che ha iniziato a pensare al film 7 anni fa, ha realizzato uno spaccato interessante della vita americana. Prodotto da Clipper Media e Rai Cinema con il contributo del MiBACT, My America mostra dei problemi, ma cerca di dare anche delle soluzioni, come ha spiegato Barbara Cupisti.

La scelta dell’argomento di Barbara Cupisti

Perché hai scelto questo argomento? So che, in parte, è legato al fatto che vivi in America e hai voluto raccontarla da un punto di vista diverso.

In generale, nel corso della mia carriera, ho vissuto in America per diversi momenti, precedenti al cambio da attrice a regista. In quei momenti avevo notato certe cose, ma non le vedevo con l’occhio del documentarista. Ero già venuta nel 2008/2009, subito dopo Madri e Vietato sognare (i primi documentari di Barbara Cupisti, ndr), avevo in preparazione un film sulle nuove povertà ed ero andata a New York. Quando, poi, sono tornata qui a vivere 7 anni fa le realtà e le storie erano cambiate e c’era ancora enorme disparità sociale e problemi legati alle tematiche di cui ho parlato nel film. Ciò che mi è saltato all’occhio sono stati i numeri di vittime da guerra anche se non c’è la guerra. E questi numeri andavano tirati fuori.

Barbara Cupisti

Quindi il documentario non è nato in relazione a tutto quello che è successo ultimamente in America?

No, il film è nato 7 anni fa, quando ho cominciato a pensarci e mi ci sono trasferita. Quando vivi in un posto cambia la prospettiva con cui lo guardi. Io sono arrivata che c’era ancora Obama, poi ci sono state le prime presidenziali ClintonTrump. E io mi sono appassionata tanto a Bernie Sanders e al suo movimento perché innovativo con giovani, ambientalisti, persone di etnie diverse che non si sentivano rappresentate. Questo, però, è accaduto 4 anni fa, 3 anni dopo che ero arrivata. Adesso ci sono state le nuove elezioni. Chi fa questo tipo di lavoro, in un certo modo, riesce anche a prevedere gli avvenimenti sociali e politici che avverranno. Quando stai attento alle cose e ai segni capisci che certe cose succedono.

Un’incredibile attualità

Alla fine, infatti, è un film attuale.

Il film è stato fatto ora. Io l’ho finito di montare a febbraio. L’ho girato nel 2019 e finito di montare una settimana prima del lockdown, a New York. Il mix fatto (è uno dei primi esperimenti di film pandemic) perché è stato fatto con l’Italia a distanza con l’ingegnere del suono e con l’orario di differenza.

Oltre che informare in una maniera diversa da quella tradizionale con la quale ci arrivano le notizie in tutto il mondo, il documentario può essere anche una sorta di “aiuto” per lo spettatore, qualunque esso sia? Per esempio la scena, nel primo capitolo, dove viene spiegato come tentare di salvare una persona alla quale viene sparato.

È assolutamente da vedere in questo senso. Non è una critica, anzi. Uno vede qual è il problema, ma capisce anche quale può essere la soluzione e dove le istituzioni a volte mancano. Ci si rimbocca le maniche e si cerca di dare una mano. Nelle periferie ci sono dei gruppi di ragazzi che cercano da soli di aiutarsi. Ci sono dei ragazzi che si riuniscono per spiegare gli uni agli altri cose che sembrano assurde, che sembrano follia. È vero che c’è il problema, ma ci sono persone ed è giusto dargli valore.

Alla fine, infatti, ci ho visto una chiave ottimista. Si può uscirne in qualche modo.

Sì, perché tante persone si fermano al problema, alla gravità di esso. In realtà però viene dato anche qualcos’altro.

Anche le persone stesse sono quelle che danno la soluzione. Sono al tempo stesso la vittima, ma anche le persone che danno più speranza.

Sì, è proprio così.

Delle voci precise che raccontano

Quello che mi ha colpito è che, oltre al problema generale, hai scelto delle voci specifiche con una storia alle spalle e un background particolare. Non ti sei limitata a parlare in generale della problematica, ma l’hai strettamente legata a qualcuno e a qualcosa di concreto. E quelle che incontriamo sono delle vittime, ma al tempo stesso sono le persone dalle quali ripartire. Come hai trovato queste persone e com’è stato rapportarsi con loro?

Alcuni dei personaggi sono arrivati attraverso ricerche. Poi tramite loro avevo cominciato a vedere che c’era questa divisione all’interno in un paese grande come un continente con diverse problematiche. La tematica della violenza c’è sia nelle scuole “bianche” che nei ghetti afro americani, anche se magari per altri motivi. C’è questa violenza di base legata alla povertà e allo spaccio di droga.

E c’era sempre stata una difficoltà di comunicazione: da una parte ragazzi bianchi che fanno sparatorie perché hanno squilibri o problematiche (e trovano le armi in casa) e dall’altra la realtà delle periferie. Ma non c’era mai stata la possibilità di lavorare insieme. Grazie al movimento che questi ragazzi hanno creato, per la prima volta, hanno cominciato a lavorare insieme sia i ragazzi delle periferie che quelli bianchi delle scuole. Ora che queste realtà si sono unite fanno ancora più pressione e speriamo di trovare una soluzione al problema.

La divisione in tre capitoli

Come mai hai scelto di raccontare la storia dividendola in questi tre capitoli che comunque sono legati?

In realtà i capitoli sarebbero 4, perché manca quello degli oppioidi, ma per questioni di lunghezza è stato scelto di toglierlo. La storia così è un po’ sbilanciata, secondo me, perché ci sarebbe stata una possibilità di comprendere meglio la tematica. Sarebbero state 4 stagioni, 4 fasce di età. L’ultimo capitolo andava a equilibrare la storia.

Io solitamente faccio film intrecciati, ma, in questo caso, ho scelto di dividerlo in capitoli. Spesso per motivi distributivi è richiesta una versione più corta e diventa difficile scorciare in generale un film. In questo modo, invece, si può eliminare un capitolo. E così, in base a quello di cui si vuole parlare, si può guardare anche solo un capitolo.

In realtà, per me Barbara Cupisti, il motivo reale è che non volevo disturbare o distrarre lo spettatore con troppe informazioni. Così facendo ci si concentra solo su quella determinata storia. Anche se può sembrare didascalico, secondo me quando si parla di determinati argomenti (forti come questi) è inutile stare a ricamare troppo. La cosa importante è la storia e le persone che la raccontano. Io amo molto i documentari più poetici, stilistici. Ma in My America è talmente importante quello che si dice che dargli mezz’ora di tempo per raccontare bene senza avere distinzioni era importante. Ho eliminato determinate cose per lasciare il racconto nudo e crudo che può sembrare più semplice, anche se secondo me non è mai semplice. Per me è più importante dare la possibilità alle persone di essere viste per quello che sono.

Secondo me sono comunque capitoli intrecciati tra loro, oltre che per la costruzione (mostrano il problema e l’ipotetica soluzione), li ho visti anche come una sorta di ciclo: sono interscambiabili e uno è il problema dell’altro, ma anche la soluzione al tempo stesso.

Infatti è proprio così. E se ci fosse stato anche il capitolo degli oppioidi si sarebbe capito di più. Anche perché è legatissimo al precedente che si chiude con la mamma che fa il monologo davanti alle ceneri del figlio e ricomincia sulla macchina di un poliziotto che parla dei giovani che muoiono di oppioidi. Quindi tutto è collegato.

Anche le frasi stesse che pronunciano sembrano quasi essere una risposta tra loro. Si può dire che è un dialogo tra i capitoli?

Sì, è un dialogo che non è intrecciato all’interno, ma all’esterno. Ed è anche un vero e proprio viaggio.

Alla fine quello che viene fuori è un segnale di speranza, ma al tempo stesso rappresenta anche una denuncia nei confronti di un sistema che andrebbe modificato. Con le recenti elezioni ci si auspica un cambiamento in un modo o in un altro.

Ancora non si sa e non si può sapere se ci saranno cambiamenti e quali saranno. Si spera comunque che si riesca ad eliminare qualche problema.

Dal momento che Barbara Cupisti nasce come attrice, quanto ha influito il tuo essere attrice nella realizzazione di questo documentario? Ho notato un’attenzione ai volti e alle storie delle persone che mi sembra si possa ricondurre ad un’esperienza da attrice.

È proprio così: è il mio modo. La mia formazione è stare più attenta a cosa si dice e come si dice, al messaggio della persona e dare valore alla storia della persona più che a tutto il contorno. A me quello che interessa è l’essere umano che racconta storie e l’emozione che ci mette e il messaggio che vuole trasmettere. Il resto a volte lo metto per contestualizzare. Non sono mai interviste le mie; è il mio modo di fare che fa diventare la storia un dialogo e un racconto. Sono quasi dei monologhi dove i personaggi parlano come se parlassero davanti ad uno specchio. Mi piace dare spazio alle storie delle persone. E lo preferisco alla bella inquadratura.

E quindi la Barbara Cupisti regista ha già qualche progetto in cantiere?

Sto scrivendo una sceneggiatura per un film che parlerà della Toscana, dell’ultima migrazione toscana della Lucchesia e di tutta quella zona che nel secondo dopo guerra va verso gli Stati Uniti e di cui nessuno ha mai parlato.

Sono Veronica e qui puoi trovare gli altri miei articoli

My America

  • Anno: 2020
  • Durata: 96'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Barbara Cupisti