Presentato in concorso al #TFF, Camp de Meci (Poppy Fields) è il primo lungometraggio del rumeno regista teatrale e cinematografico Eugen Jebeleanu.
La pellicola si ispira alle proteste reali da parte di un gruppo di omofobi in un cinema di Bucarest contro le proiezioni di (2017) Soldiers: A Story From Ferentari di Ivana Mladenovic e 120 Battiti al minuto di Robin Campillo.
Trama
Cristi ( Conrad Mericoffer,) è un giovane poliziotto rumeno che vive un’esistenza conflittuale rispetto alla sua identità: lavora in un ambiente gerarchico e maschilista ma è omosessuale e cerca di conservare gelosamente il segreto sulla sua vita privata. Nei giorni in cui Hadi, (Radouan Leflahi) il ragazzo con cui ha una relazione a distanza, è venuto a fargli visita dalla Francia, Cristi viene chiamato per un intervento: un gruppo nazionalista e omofobo ha interrotto la proiezione di un film a tematica lgbtqi+. Quando uno dei manifestanti minaccia di smascherarlo, Cristi perde il controllo.
Camp de meci: Dimensioni diverse
Partendo dal presupposto di un fatto reale il film di Eugen Jebeleanu esplora una dimensione esistenziale “multistrato”.
Cristi il protagonista vive due vite parallele. Da una parte cè la sua sfera privata, dall’altra la sua sfera lavorativa e quotidiana.
Il film si apre nella dimensione privata. Cristi abbraccia Hadi, il suo partner, venuto a trovarlo da Parigi. Colpisce immediatamente la grande passione che li lega insieme ad una familiarità di gesti e conversazioni intensa. Evidente è la complicità caratteriale fatta di scambi dialogici che mettono in rilievo un rapporto solido e costante. Nonostante una chiara differenza culturale e sociale, tra i due sembra essersi stabilito un equilibrio, sottolineato dall’uso comune della lingua inglese. Il divario interiore viene però manifestato subito dopo, all’arrivo della sorella di Cristi. Qui subentra il contrasto, la difficile comunicazione, il non detto con l’uso di un plurilinguismo che mira a sottolineare il desiderio di mantenere celata una parte della sua vita. Desiderio reso ancora più evidente nelle scene con i colleghi poliziotti. Cristi mantiene segreta la sua omosessualità, nascosta dietro conversazioni banali.
LA MASCHERA DELLA NORMALITA’
Cristi saluta Hadi raccomandandosi di aspettarlo a casa senza uscire, vergognandosi di quella presenza e restio a condividere con la famiglia quella che la sorella definisce la sua “fase gay“. Ed ecco che, nel momento in cui il personaggio entra a contatto con la dimensione quotidiana lavorativa, subisce una vera trasformazione. Indossando la maschera della “normalità”, Cristi finge di essere qualcuno che non è. Nei discorsi tra amici in macchina, si parla di vacanze sulla neve, di relazioni non durature ( “ma cosa gli fai alle donne? Le picchi?”), e per tutto il tempo la maschera indossata fa però trasparire dal volto di Cristi una evidente insofferenza pronta ad esplodere. L’episodio al teatro con la manifestazione contro il film è soltanto un pretesto per Cristi per esprimere un disagio, soprattutto verso se stesso. Il suo volere essere a tutti i costi “normale” lo spinge alla violenza verso il ragazzo che lo ha provocato e lo spinge soprattutto ad ostentare lui stesso comportamenti omofobi . La sua omofobia è paradossale, ma è il solo modo per adeguarsi agli altri e la sola arma di difesa che conosce verso la sua propria diversità che non accetta. L’uso stereotipato di termini macchiettistici verso i gay diventa un disperato tentativo di rientrare a far parte del “ceto sano”machista a cui vorrebbe appartenere, allineandosi alla linea di pensiero nazionalista dei protestanti che si rifiutano anche di utilizzare il termine inglese ( ” chiamali omosessuali, non gay!Parla rumeno!).
Tutto si conclude in teatro come in una tragedia. ma con nessuna scena eclatante o drammaticamente esaustiva. La tensione si consuma tra le poltrone rosse e il silenzio della sala, interrotto solo dalle fugaci apparizioni di un paio di avventori. Qui lunghe sequenze e molti primi piani con un’ottima fotografia. Importante il contributo di uno dei maggiori direttori della fotografia del cinema rumeno, Marius Panduru (Orso d’argento Aferim!, di Radu Jude).
Nel finale volutamente aperto la verità non viene esplicitamente rivelata, ma tacitamente compresa e Cristi preferisce incamminarsi da solo, forse a disagio con la sensazione di esser guardato con occhi diversi e di aver bisogno, per gli altri, quasi di protezione. Cala il sipario sullo spettacolo delle contraddizioni umane.