Con il documentario I tuffatori, prodotto da Meproducodasolo e Scheme Pictures, Daniele Babbo, conosciuto per i video musicali e sperimentali come Dandadd, realizza il suo primo film, davvero originale. Il film è stato presentato prima al Torino Film Festival, nella sezione Italia.doc, e ora al Festival di Trieste, nella sezione Premio Corso Salani.
Contenuti del film
Siamo a Mostar, in Bosnia. Le prime scene ci presentano l’acqua del fiume Neretva nei suoi colori più decisi. La montagna. Un ponte. Dei ragazzini che provano a tuffarsi dagli scogli.
Poi, viene ripreso molto da vicino il rito del tuffo dal ponte vecchio, lo Stari Most, nel fiume sottostante. I tuffatori sono quasi tutti professionisti e ripetono l’usanza che risale a duecento anni fa. E che non si è mai interrotta, neppure durante la guerra. Si assiste alla quotidianità di alcuni di loro, giovani e meno giovani e ai momenti di affiatamento nel gruppo. Si capiscono così le ragioni dell’appartenenza e di una prova coraggiosa che si ripete, per la popolazione della città e per i turisti.
Buona la struttura del documentario
Daniele Babbo ha fatto la scelta giusta per coinvolgere lo spettatore. Rendendo nella prima parte la collettività di questa pratica, per entrare nella vita di alcuni tuffatori in un momento successivo. Così i volti e le storie di Igor, Denis, Miro, Edy e Goran, ci interessano di più, dopo che abbiamo ben capito il senso dell’atto temerario, che ha come aspetto principale quello dell’appartenenza.
Per una buona mezz’ora, le scene dei lanci nel fiume freddo di montagna (ben ventiquattro metri, con riprese mozzafiato!) sono alternate a quelle dello stare insieme, in un luogo comune adiacente al ponte. Una sorta di circolo, nel quale gli uomini coinvolti si aiutano, si supportano, s’incoraggiano. Soprattutto si ascoltano.
Non parlano mai uno addosso all’altro per primeggiare, ma scambiano tecniche, esperienze, stati d’animo, incertezze. Come una confraternita nella quale viene riconosciuto il merito, e rispettato l’insuccesso che si fa risorsa, individuale e di gruppo, per crescere. Mai una derisione; anzi, rispetto per chi non se la sente, perché ci vuole concentrazione e conoscenza dei propri limiti. Da questi confronti, i tuffatori escono più audaci e più consapevolmente motivati.
“In nessuna parte del mondo si può ammirare un tuffo stando nel centro storico della città. Negli altri posti puoi mangiare qualcosa, comprare souvenir, ma solo qui puoi vedere un tuffo dal ponte”. Così dice il manager dei tuffatori, che non ha avuto il coraggio di farlo, quel benedetto tuffo, ma che così, insieme ai suoi ragazzi, si sente ugualmente partecipe: ”Quando loro volano ho l’impressione di volare anch’io”.
Prima di vedere il film, pensare a uomini che si realizzano in uno sport così faticoso, e pericoloso, tutto esclusivamente maschile, potrebbe far pensare a sciocche prove di virilità. O a cerimonie di iniziazione lontane dalla nostra cultura, come quella in Dio è donna e si chiama Petrunya, presentato a Torino al festival dell’anno scorso.
Il pregio del documentario è proprio quello di farci sentire la sacralità della tradizione, la passione nel ripeterla, e tramandarla.
Guerra, distruzione e ricostruzione del ponte
Di guerra si parla solo nella seconda parte del film, con le atrocità, il suo carico di lutti non ancora elaborati, fino al crollo del ponte (marzo 1993), dal quale prima del conflitto si buttavano insieme cattolici, ortodossi, musulmani. “ Le guardie carcerarie mi conoscevano perché si tuffavano con me”, dice Goran. Ci si tuffava anche col pericolo reale dei cecchini che sparavano dalla montagna.
Ricostruito nel 2004 e diventato patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, ora luogo turistico, il ponte vecchio racchiude nella sua semplicità tutta la nostalgia di un passato difficile da recuperare. “Il ponte vecchio è il ponte vecchio. Anche questo nuovo ce l’ho nel cuore. Serve solo che il tempo, la pioggia, il freddo, il sole e l’inverno lo consumino.” Dice Miro.
Il ponte di Mostar e il ponte sulla Drina: storie di appartenenze
Descrizione e narrazione di questo film sono armonizzate in modo tale da trasmettere il significato autentico dello Stari Most nella quotidianità degli abitanti di Mostar, di cui era ed è un simbolo insostituibile. Come Il ponte sulla Drina di Ivo Andric, nel romanzo che ne porta il nome. Così lo scrittore bosniaco descrive la condizione di ognuno dopo la ricostruzione del ponte:
“Ogni abitante della cittadina, anche il più umile, aveva l’impressione che le sue capacità e le sue energie si fossero di colpo moltiplicate; come se un’impresa grande, meravigliosa e sovrumana fosse diventata accessibile, calata nei confini del suo universo quotidiano; come se accanto agli elementi fino ad allora conosciuti — terra, acqua, cielo — ne fosse stato scoperto uno nuovo; come se, grazie all’opera benedetta di un individuo, fosse stato reso concreto uno dei desideri più profondi, il sogno antico dell’umanità: camminare sopra le acque e dominare lo spazio”.
Ivo Andric esprime il legame condiviso tra l’uomo e il ponte sulla Drina, tra l’uomo e la sua città. Nel suo caso si tratta di Visegrad, la cittadina bosniaca con un ponte architettonicamente più bello e una storia ancora più complessa, ma l’investimento identitario è molto simile agli abitanti di Mostar. Uguale la voglia di riscatto di cui nel tempo è diventato l’emblema.
Nessuno di loro vorrebbe lasciarlo per emigrare, ma molti sono costretti a farlo. Pesa su tutti una situazione sociale che non migliora, la ripresa, dopo la guerra, che stenta a ripartire.
Resa del film che va oltre il folklore
Daniele Babbo è riuscito a cogliere tutto questo, andando ben oltre il folklore dei tuffi giornalieri per i turisti, ai quali si chiedono offerte libere. Monetine contate insieme per essere poi suddivise. Andando oltre anche al folklore della gara annuale, che diventa una festa per tutta la città e attrazione dei visitatori. Si vede che con i tuffatori ha passato del tempo, a dare naturalezza al racconto dei momenti comuni e a quelli soggettivi che si fanno struggenti.
“Mi hanno accettato come uno di loro, così mi sono ritrovato a raccontarli dall’interno, girando il più possibile, nel corso degli ultimi quattro anni. Mi sono apparsi così come un vero simbolo della loro città e del loro paese, uomini che portano nella loro mente e nei loro corpi i segni delle generazioni e della loro storia.”
Daniele Babbo