Il 19 novembre 1919, nasceva Gillo Pontecorvo, regista di grande coraggio, apprezzato all’estero, ma sottostimato in Italia. I suoi migliori film, preziosissimi strumenti interpretativi per leggere la storia dell’umanità, sono disponibili su YouTube.
A metà strada tra il neorealismo e il cinema sovietico, Gillo Pontecorvo non è mai sceso a compromessi. Il suo cinema è stato capace di esprimere le contraddizioni dell’Uomo e della Storia. Scandalizzando, con le sue innovazioni, ha dato voce agli oppressi ed emarginati, facendoli diventare eroi, simboli di popoli interi.
L’attualità del suo cinema
Gillo Pontecorvo arriva dietro la macchina da presa piuttosto tardi. Quando realizza La grande strada azzurra, nel 1957, ha quasi quarant’anni, ma dimostra di avere la stessa passione di un giovanotto. L’impgno civile e politico è percepibile nei suoi film, ancora oggi molto attuali.
É l’attualità una delle sue principali qualità. Contemporaneo di Michelanglo Antonioni, Luchino Visconti e Federico Fellini; Gillo Pontecorvo è stato messo da parte dalla critica. Ma il nostro si è fatto valere. E con le sue storie ha raccontato i più importanti conflitti sociali.
Spesso ricordato come il regista di un unico film, La battaglia di Algeri, Gillo Pontecorvo, attraverso le storie di singoli individui, ha difeso la dignità degli oppressi. Le lotte delle operaie, lo sterminio degli ebrei e il razzismo, sono solo alcuni dei temi affrontati dal regista.
I conflitti sociali e non solo, raccontati da Gillo Pontecorvo, mettevano le radici nel decennio tra il 1960 e il 1970, ma continuano a svilupparsi ancora oggi. Basti pensare ai soprusi perpetrati dalle potenze occidentali ai danni dei popoli in via di sviluppo, come avviene in Queimada con Marlon Brando.
Ma Gillo Pontecorvo non è stato attuale solo per la scelta del materiale narrativo. Il regista rifletteva anche sulle potenzialità del cinema, del suo linguaggio e dei suoi mezzi tecnici. Era in perenne ricerca della forma perfetta e ciò gli ha permesso di giungere a soluzioni innovative.
Lo scandalo di Kapò
È il caso di Kapò (1959), con Susan Strasberg e Laurent Terzieff. Il film, che rappresentò l’Italia alla cerimonia degli Oscar del 1961, si inserisce, a pieno titolo, nella stagione del nuovo cinema d’autore italiano ed europeo.
Protagonista è Edith (Susan Stransberg), un adolescente ebrea, che si trova gettata nell’inferno di un campo di sterminio. Lo spirito di sopravvivenza della giovane, fa si che accetta lo stratagemma di un medico del campo che la fa passare per Nicole, una criminale francese. In questo modo, Edith / Nicole sopravvive e diventa una Kapò. Al campo di concentramento arriva un gruppo di prigionieri di guerra, tra i quali Sasha (Laurent Terzieff), che s’innamora della ragazza. I russi organizzano una fuga di massa, ma Nicole viene uccisa.
Kapò esprime al meglio l’innovazione che caratterizza la filmografia di Gillo Pontecorvo. Il film è un’opera originale, sia per le sue scelte narrative, che per le scelte formali eseguite.
Il regista, con questo film, è tra i primi cineasti in Europa e forse al mondo, a trattare, attraverso una storia d’invenzione, la shoah. Il tema era scottante e ritenuto, in una certa misura, un tabù. Prima di lui, lo stermino degli ebrei era stato affrontato, sostanzialmente, in chiave documentaristica.
Gillo Pontecorvo con Kapò mette in campo anche delle innovazioni tecniche. Il film doveva avere i connotati di un documentario. È per questo viene scartata la possibilità di realizzarlo a colori, scelta che lo avrebbe avvicinato troppo al cinema di consumo.
Ma neanche la fotografia in bianco e nero accontentava del tutto Gillo Pontecorvo, il quale aveva immaginato una resa molto sgranata. La scelta che fa è davvero innovativa e con un complesso procedimento, riesce a stampare due volte la pellicola, ottenendo l’effetto voluto.
Kapò scandalizzò molto una certa critica militante italiana ma soprattutto francese. Nel 1961 Charies du cinema pubblica un articolo, firmato da Jacques Rivette, con il sentenzioso titolo: De l’abjection. L’abiezione per il critico e futuro regista francese, era Kapò e Gillo Pontecorvo.
La stroncatura da parte di Rivette si basava sulle teorie di Andrè Banzin. Il padre fondatore della prestigiosa rivista riteneva “osceno” riprendere, con i mezzi cinematografi la morte. In effetti è ciò che avviene in Kapò.
Ad un certo punto del film, Teresa (Emmanuelle Riva), una deportata come Edith, decide si suicidarsi, gettandosi sul filo spinato elettrificato. Gillo Pontecorvo mostra il tragico gesto con una carrellata in avanti.
Ciò scatenò le ire di Rivette, della critica militante e degli appassionati di semiotica cinematografica. Questi ultimi videro nel famigerato carrello di Kapò, un tentativo di spettacolarizzazione della morte.
Ma l’intento di Gillo Pontecorvo era quello di esprimere l’assuefazione della morte in un luogo come il campo di sterminio. Il carrello in avanti serviva per far entrare nell’inquadratura delle prigioniere, che assistevano all’estremo gesto della loro compagna, rimanendo del tutto distaccate.
Kapò ha il merito di fare un accenno alla sessualizzazione del campo di sterminio. Nel film non ci sono scene di sesso esplicito, ma lo spettatore comprende che Edith riesce a salvarsi perché si concede ai nazisti.
Giovanna
I film di Gillo Pontcorvo danno molta importanza ai personaggi femminili e spesso sono le protagoniste, come in Kapò. Per il suo esordio come regista di finzione, dopo una serie di documentari, il cineasta realizza Giovanna, un mediometraggio corale al femminile.
Giovanna è la storia di una donna, un’operaia, che vorrebbe partecipare all’azione di protesta decisa contro il licenziamento di alcune operaie della fabbrica. Il marito, un comunista, anche lui operaio, tenta di convincerla che non sono cose da donne. Ma Giovanna, per solidarietà con le sue compagne, decide di restare in fabbrica. Mentre gli altri mariti vanno a portare i rifornimenti alle mogli, il marito di Giovanna non va mai a trovarla. Ma la donna non si perde d’animo, anzi, piano piano acquista maggiore consapevolezza della lotta.
Questo mediometraggio era stato realizzato per essere un episodio de La rosa dei venti, un film sulla condizione della donna nel mondo. La pellicola integrale non arrivò mai in Italia, salvo i quaranta minuti realizzati da Gillo Pontecorvo, che vennero presentati a Venezia.
In Giovanna, oltre all’influenza neorealista, è percepibile anche quella del cinema sovietico. Non solo per elementi come la descrizione dell’ambiente, le inquadrature, il linguaggio. Ma soprattutto nella presenza di un protagonista corale, il corpo delle lavoratrici della fabbrica.
Giovanna è un film asciutto, senza sbavature, qualche volta anche duro. Si respira l’atmosfera dell’epoca scelbiana, il contrasto di classe è netto. La polizia sbarra la strada che dà accesso alla fabbrica occupata, il padrone ricatta pesantemente le operaie.
Il tema dello sfruttamento operaio si incastona nel tema ancor più delicato della subalternità femminile. La discussione tra moglie e marito, nella sequenza di apertura, conferisce al film un tono di rivendicazione femminista, molto avanti rispetto ai tempi.
Giovanna e Antonio, suo marito, sono le figure simboliche. Attorno si muovono altre donne e altri uomini. Personaggi maschili meno radicati nella loro opposizione, forse più spettatori che veri e propri personaggi.
Il mediometraggio ha un finale aperto alla Ejzenstejn. L’importante non è l’esito dello sciopero, ma la necessità dello sciopero stesso. È l’unione tra le donne-operaie a sancire la riuscita dell’opposizione al capitale.
La grande strada azzurra
La donna continua ad avere un ruolo fondamentale nel cinema di Gillo Pontecovo. Questo avviene anche quando la protagonista non è una figura femminile. È il caso de La lunga strada azzurra (1957), tratto dal romanzo Squarciò di Franco Solinas, sceneggiatore del film.
Centrale è la vicenda di Squarciò (Yves Montad), che fa uso della dinamite per pescare. Dopo aver perso la sua barca, si mette contro all’intero villaggio, acquistando un’imbarcazione all’asta. Nel tentativo di preparare una carica perde la vita, ma consegna i suoi figli alla comunità.
Il modello seguito da Gillo Pontecorvo in questo film, è ancora principalmente quello sovietico, con numerose suggestioni di natura viscontiane. La lotta tra individualismo e collettivismo è resa esemplarmente attraverso le inquadrature che isolano Squarciò rispetto alla massa dei pescatori.
Se in Giovanna la donna aveva un ruolo attivo, in La grande strada azzurra è complice del volere maschile. Rosetta (Alida Valli), moglie di Squarciò, rimane una figura di sfondo e Diana (Federica Ranchi), la figlia, incarna la forma più scontata dell’adolescenza paesana.
Ma il ruolo delle donne è rivalutato su un piano più simbolico che reale. Le imbarcazioni hanno tutti nomi femminili. Speranza si chiama la barca di Squarciò e Teresa è la barca del vecchio padre di Salvatore (Francisco Rabal).
La barca è femminile proprio perché nel film, il motore dell’agire maschile è rappresentato dall’aspirazione della donna verso un riconoscimento sociale ed emancipazione economica. Inoltre la nomenclatura degli scafi richiama la mitologia, dove Diana e Teresa sono riconducibili alla caccia.
La battaglia di Algeri
Gillo Pontecorvo ottiene la sua consacrazione internazionale come regista, con La Battaglia di Algeri (1966), film che ha vinto il Leone d’Oro alla 27° edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Il film racconta la lotta dei ribelli algerini e delle misure sempre più estreme adottate dal governo francese. Ma ben presto la rivolta acquista un carattere nazionale e porta alla dichiarazione di indipendenza dell’Algeria nel 1962.
Questo film, oltre ad essere la pellicola più conosciuta realizzata dal regista, è senza dubbio, la più studiata e analizzata dalla critica, non solo cinematografica. Studiosi delle più disparate discipline hanno dedicato svariati lavori a questo film.
La battaglia di Algeri, infatti, propone una vasta gamma di temi molto interessanti. Colonialismo, post-colonialismo, questione araba, istigazione alla rivolta e giustificazione di una certa forma di terrorismo; sono solo alcuni dei punti affrontati da Gillo Pontecorvo.
Il film, dopo più di cinquanta anni dalla sua realizzazione, resta attualissimo. Basti pensare alla situazione politica, sociale ed economica dei paesi africani che si affacciano sul mediterraneo, alla questione araba e al terrorismo di matrice islamica.
La battaglia di Algeri, è diventato un film emblema con un potere politico traversale. Capace di affascinare i leader rivoluzionari di tutto il mondo. A prescindere dalla loro storia e dal loro paese.
Queimada
Dopo il successo de La battaglia di Algeri, per Gillo Pontecorvo fioccano le proposte di grandi produttori, anche da Hollywood. E da una di queste nasce Queimada (1969), interpretato da Marlon Brando.
Il film è ambientato nel XIX scolo, in un’isola immaginaria dei Caraibi, dove arriva sir William Walker (Marlon Brando), un avventuriero. Questi organizza una sollevazione, con l’obiettivo di scagliare la popolazione locale contro i dominatori portoghesi e portare l’isola di Queimada sotto il controllo inglese.
La vicenda è costituita, in gran parte, da fatti storici accaduti. Sir Walker è una figura realmente esistita, inoltre nel film si fa accenno anche alla vicenda di Francois Toussaint Louverture, uno schiavo che guidò la rivolta a Santo Domingo nel 1803.
L’obiettivo di questo film è più vasto e insieme più significativo che nella Battaglia di Algeri. In quest’ultimo, la lotta era contro un oppressore ormai chiaramente condannato dalla storia. In Queimada si cerca di andare alle origini, alle radici sanguinose del colonialismo.
Senza nulla togliere alla creatività di Gillo Pontecorvo, che d’altronde partecipò al lavoro della stesura della sceneggiatura solo nella parte iniziale. Il merito di questa audace operazione va attribuita soprattutto a Franco Solinas, sceneggiatore, impegnato soprattutto nel cinema politico.
La struttura narrativa di Queimada, infatti, ricorda molto quella di Quien sabe?, con la regia di Damiano Damiani e come sceneggiatore appunto Franco Solinas. Il film di Damiani è del 1966, quindi precede di qualche anno la pellicola di Gillo Pontecorvo.