La vita davanti a sé, il film di Edoardo Ponti con Sophia Loren
La vita davanti a sé risulta un film gradevole, di buona fattura e ottima interpretazione. Non necessario, però, e soprattutto non all’altezza della candidatura all’Oscar
Sul film di Edoardo Ponti, La vita davanti a sé (Netflix,dal 13 novembre,prodotto da Carlo degli Esposti e Nicola Serra per Palomar) sono state create molte aspettative, soprattutto grazie alla pubblicità per il ritorno di Sophia Loren sugli schermi.
A cui si aggiunge la risonanza dei due testi che l’hanno preceduto: quello letterario (di Romain Gary, 1975) e quello filmico (La vie devant soi, con Simone Signoret, 1977) entrambi di notevole e meritato successo.
Chi ha amato tanto Romain Garye la perfetta, insostituibile Simone Signoret, non ha neppure nascosto il pregiudizio nei confronti del film di Edoardo Ponti, malignando che lui lo ha fatto per fare un piacere alla madre o il contrario. Sono i lettori e i cinefili gelosi del libro e della trasposizione cinematografica anni Settanta, della loro intensità poetica, che pensano non abbiano bisogno di rivisitazioni.
In effetti, il film di Edoardo Ponti sembra dar loro ragione. Non aggiunge nulla e si presenta come la riduzione di una storia, assai semplificata, quando invece il bello dei due racconti francesi era proprio la ricchezza dei toni: l’ironia di Momo (il protagonista), i sentimenti suoi e degli altri personaggi, Mamma Rosa, in primo luogo, filtrati tutti dal punto di vista del ragazzino.
Nonostante ciò, La vita davanti a sé del 2020 risulta alla fine un film gradevole, di buona fattura e ottima interpretazione. Non necessario, però, e soprattutto non all’altezza della candidatura all’Oscar, di cui si sta parlando in questi giorni.
La trama
Momo (Ibrahima Gueye) è un dodicenne di colore che viene affidato a Mamma Rosa (Sophia Loren) dal suo amico dottor Cohen (Renato Carpentieri). La donna, un ex-prostituta anziana che finora si è mantenuta badando ai bambini di altre prostitute, non si sente più in grado di farsene carico. Ma poi, per soldi e per un tempo limitato, accetta. L’iniziale forte diffidenza tra i due si trasforma in un rapporto di scambio e dipendenza affettiva, fino alla struggente separazione dovuta alla malattia di lei.
Inevitabili confronti
Forse bisognerebbe giudicare il film senza troppi confronti, liberandosi della malia del tempo che fu. Ma se un regista dirige la storia condividendo il titolo con l’originale, anche se l’ambientazione è tutta italiana e contemporanea , se ne assume in pieno la responsabilità. E noi non possiamo fare a meno di andare col ricordo all’incipit dei due lavori: quello di Romain Gary e quello di Moshé Mizrahi, regista e sceneggiatore israeliano, premio Oscar come miglior film straniero, con La vita davanti a sé nel 1978.
L’inizio del film con Simone Signoret
Nell’incipit del film, francese, Simone Signoret torna dall’aver fatto la spesa, con l’immancabile baguette nella sporta, e affronta faticosamente le scale di casa, ansimando. Incontra quelli che saranno i personaggi della narrazione, fino a raggiungere l’appartamento occupato da bimbi di tutte le età. Nella vita la grande attrice ha cinquantasei anni e non gli ottantasei di Sophia Loren.
È una credibile sostituta materna, affettuosa, se pure stanca e ammalata. Gioca con i bambini, li accudisce, non gli risparmia, ogni tanto, disincantati bagni di realtà perché devono imparare cos’è la vita fuori da lì. C’è una buona dose di affettività in quella casa e, cosa più importante, Momo è lì dall’età di tre anni. Molto più credibile così il suo attaccamento a Mamma Rosa, la donna con cui è cresciuto, nonostante per lui non arrivino più soldi da tanto tempo.
Nel film di Ponti, la convivenza tra i due dura troppo poco per giustificare un sentimento che da ambivalente diventa così solido. Chissà perché ha voluto limitare la loro conoscenza a qualche mese appena!
L’esordio de La vita davanti a sé di Romain Gary
“Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e per Madame Rosa con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni. Ce lo ricordava ogni volta che non si lamentava per qualcos’altro, perché era anche ebrea. Neanche la sua salute era un granché e vi posso dire fin d’ora che una donna come lei avrebbe meritato un ascensore.”
Il romanzo si apre con una sequenza riflessiva di Momo. Ce ne saranno tante, perché tutto il racconto si costruisce sulla sua valutazione dei fatti, mentre li racconta. Sulla sua stravagante interpretazione del mondo, la realtà multietnica del quartiere Belleville, a Parigi. “Ho notato spesso che la gente riesce a credere a quello che dice, le serve per vivere”.
È un giovane, ancor più giovane, Holden francese, più naive per l’ostinazione con cui, abbandonato presto dalla madre, deve trovare a tutti i costi una sua identità. Non sarà stato facile tradurre in un racconto filmico la ricchezza interiore di Momo, insieme alla sua ingenuità. Il conflitto tra il bambino che è ancora e il ragazzo che fa fatica a crescere.
Moshé Mizrahi allora ha scelto la fedeltà, e ha funzionato. Ponti invece continua a sottrarre dall’originale, trasformando il vissuto di Momo in quello di un abile spacciatore e sviluppando la relazione con Mamma Rosa in tutta fretta.
Ma di quale Momo stiamo parlando, senza l’amico immaginario, Arthur, l’ombrello che ha vestito e che si porta dietro come fosse una persona? E senza l’episodio del cane, che vende per strada nonostante gli sia molto affezionato? Anzi, proprio per questo, perché è meglio abbandonare che essere abbandonati.
Che dire poi del gesto di buttare i cinquecento franchi guadagnati nel tombino, che agli occhi di Mamma Rosa sembra dimostrare la sua anormalità, tanto da portarlo, preoccupata, dal dottore?
E ora mettiamo da parte pregiudizi e nostalgie
Però La vita davanti a sédi Edoardo Ponti è piaciuto a chi non conosce Romain Gary e non ha visto il film del ’77. Allora, cerchiamo di sgombrare la mente dalle nostalgie e valutarlo più obiettivamente. Valorizzare, per esempio, alcune citazioni, come quella dei candelabri nell’incipit del film. Momo ruba dalla borsa di Mamma Rosa questi due oggetti preziosi, che risultano piuttosto incongrui al mercato pugliese in cui la scena è concepita.
Che richiamano, invece, gli stessi oggetti simbolo del riscatto morale di Jean Valjean, ne I Miserabili di Victor Hugo. Valjean ha già trascorso ben diciannove anni in carcere per aver rubato un tozzo di pane, ma non resiste al furto dell’argenteria del vescovo Myriel, nella cui casa è stato accolto. Una volta scoperto, il vescovo non si limita a perdonarlo, ma afferma che l’argenteria è un regalo e lo rimprovera per aver dimenticato i due candelabri. Ecco così che questi due oggetti si fanno metafora di una possibile risalita dal fondo esistenziale nel quale il personaggio era precipitato.
Mamma Rosa non è capace di un gesto altrettanto gratuito, ma poi, molto a modo suo, sì. Lo accoglie in casa, dandogli fiducia, e forse questa svolta dà senso anche alla figura di Momo come spacciatore, che comincia a crescere attraverso l’affetto di lei. Dimentichiamo la venalità di Ponti, che l’ha fatta contrattare fino all’accordo di ben settecentocinquanta euro al mese per tenerlo! Godiamoci la citazione di Victor Hugo e l’averla individuata!
Allusione gradevole, più facilmente riconoscibile, quella di Sophia Loren in terrazza con i panni stesi. In Una giornata particolare Ettore Scola ha girato quella memorabile scena piena di vita. Qui vediamo Mamma Rosa su una sedia, imbambolata, sotto uno scroscio di pioggia, perso completamente il contatto con la realtà. È la prima crisi neurologica di Mamma Rosa, resa benissimo dalla recitazione della Loren, che ha sempre mantenuto il passaggio commovente tra la fragilità e la spavalderia del personaggio.
Il film si regge molto sulla sua performance, con una narrazione che la mette più a fuoco di Momo. E quindi non è più una storia di formazione, come nel romanzo, bensì l’incontro di due anime, di chi ha la vita davanti a sé e chi soffre ancora per quella passata. Di chi vorrebbe conoscere le origini, e chi vorrebbe dimenticarle: due persone anagraficamente lontanissime ed emotivamente molto vicine.
Il film è equilibrato, nelle scene, nei dialoghi, nelle musiche. Però noi siamo ostinati: avremmo voluto che durasse di più, per darci il tempo di condividere con i protagonisti il loro percorso di consapevolezza, che non può sottostare alla fretta.