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In Sala

Il buongiorno del mattino

“Se il buongiorno si vede dal mattino, allora mai titolo ha saputo semplificare in maniera tanto efficace gli effettivi valori tecnico-artistici espressi da una pellicola destinata al grande schermo”.

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Se il buongiorno si vede dal mattino, allora mai titolo ha saputo semplificare in maniera tanto efficace gli effettivi valori tecnico-artistici espressi da una pellicola destinata al grande schermo. È il caso dell’ultima fatica di Roger Michell, Il buongiorno del mattino, titolo (in originale Morning Glory) che dopo aver passato non indenne l’ultima tappa del suo percorso, vale a dire la visione in sala da parte del pubblico, suona quasi profetico e destinato in partenza alla triste mediocrità. Si perché a conti fatti questa commedia diretta dal regista sudafricano classe 1957, che può contare su una filmografia altalenante dal punto di vista degli esiti (dai pregevoli Notting Hill, Persuasione e Ipotesi di reato, ai discontinui The Mother e L’amore fatale), non va oltre qualche sporadico sussulto di buon cinema nella parte centrale, a dispetto di una prima ora e di una chiusura da cestinare.

Il plot sul quale si regge il film del resto non lasciava presagire nulla di particolarmente originale, tanto da risuonare nella mente come un probabile campanello d’allarme. Gran parte del demerito va dunque attribuito allo script firmato dalla stessa autrice de Il diavolo veste Prada, Aline Brosh Mckenna, che ci porta per mano nella vita di una brillante produttrice televisiva di nome Becky Fuller alle prese con la solita battaglia intestina tra la scalata professionale e il focolaio domestico, provocando automaticamente nella platea di turno quella fastidiosissima sensazione di dejà vu. Infatti, è impossibile non scorgere dietro al personaggio interpretato da una sempre all’altezza Rachel McAdams e nella sua one line, le ombre della Tess McGill di Una donna in carriera (1988), della Sally Atwate di Qualcosa di personale (1996) e della Hildy Johnson de La signora del venerdì (1940). Ombra che si estende non solo ai personaggi sopraccitati (interpretati rispettivamente da Melanie Griffith, Michelle Pfeiffer e Rosalind Russell), ma anche alle storie e alle ambientazioni sulle quali si reggono quegli stessi film diretti da Mike Nichols, Jon Avnet e Howard Hawks, ai quali andrebbe aggiunto per diritto di cronaca Dentro la notizia (1987) di James L. Brooks e L’ultima minaccia (1952) di Richard Brooks. Metti insieme in maniera disordinata e frettoloso tutti questi esempi e gli ingredienti drammaturgici che li vanno a comporre e la minestra è pronta per essere servita in tavola, una minestra tristemente riscaldata.

La Mckenna prova senza riuscirci a mescolare la screwball comedy alla commedia mainstream moderna, incastrando sprazzi di romanticismo a buon mercato in una storia che punta senza alcun dubbio al racconto di una donna alle prese con la conquista di un obiettivo professionale più che sentimentale. Il risultato è lo specchio che riflette in tutto e per tutto, pregi e difetti annessi, questa confusione di intenti, dando vita ad una sceneggiatura furba più che intelligente, un po’ troppo ruffiana, fintamente critica, che mette nella condizione Michell di adoperarsi in una regia solo diligente,  attenta ai particolari, ma priva di una vera energia narrativa. A salvare baracca e burattini dal fallimento totale un buon quartetto di protagonisti capitanato dalla già citata McAdams, che dimostra ancora una volta una versatilità di registri che gli ha consentito di passare senza scivoloni da blockbuster alla Sherlock Holmes a pellicole più impegnate tipo Il dubbio, alla quale si affiancano “spalle” di tutto rispetto del calibro di Diane Keaton, Harrison Ford e Jeff Goldblum, che a loro modo mettono in mostra sfumature differenti di umorismo.

Francesco Del Grosso

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