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Dopo Mezzanotte

L’occhio del testimone. Il cinema di Lucio Fulci di Michele Romagnoli. Una recensione con un anno di ritardo!

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Il mio negozio, ottobrata romana e piogge sparse, colonna sonora “Return of the She-King” dei Dead Can Dance.

Proseguo il mio viaggio nell’universo fulciano ricambiando, in mostruoso ritardo, la cortesia di Michele Romagnoli che quasi un anno addietro mi spedì una copia dell’edizione aggiornata del suo libro “L’occhio del testimone” (Kappalab 2015).

occhio del testimone

Sensazione un po’ strana, visto che non ho mai recensito un libro per Taxidrivers, anche se nella vita – oltre ad imbrattare carta sproloquiando di cinema e massacrare il pentagramma in una band di punk filosovietico – io mi guadagno il pane facendo il libraio.

Ma come si dice, da qualche parte bisogna pur cominciare e questo libro per molte ragioni è l’occasione giusta per rompere il ghiaccio parlando di libri.

Ovviamente mi è caro per il tema trattato.

Tutto ciò che serve a diffondere l’opera di un grandissimo maestro troppo a lungo tenuto ai margini dal masochistico senso di superiorità della cosiddetta critica colta italiana (quella che per voler parlare solo di Visconti e Pasolini, ci ha condannato oggi a sorbirci Pieraccioni e Muccino), trova non solo il mio interesse, ma anche la mia incondizionata complicità.

Come se facessimo tutti parte di una confraternita dedita a combattere il conformismo.

Un altro motivo per cui mi è particolarmente caro questo libro è perché indirettamente viene citato il sottoscritto.

Qualche autolesionista che ha avuto lo stomaco di leggere fino in fondo il mio precedente articolo sulla trilogia del terrore potrà ricordare che ebbi l’immensa fortuna di conoscere Fulci personalmente.

Tra l’altro in un periodo che considero come uno dei più belli della mia vita.

Potete quindi immaginare il misto di emozione e nostalgia nel sentir parlare, verso la fine di questa strana monografia, di un gruppo di ragazzini adoranti che nella prima metà degli anni ‘90 frequentavano casa Fulci.

Emozione che diventa commozione nello scoprire dopo tanti anni che il piacere di quelle visite era reciproco e non solo nostro.

Il libro credo sia l’unica, vera opera che possa definirsi come una fedele biografia fulciana, proprio per il carattere emozionale con cui è scritta.

Già dalla scelta dell’autore di scrivere in prima persona si capisce l’umiltà di non voler dare un ritratto assoluto sul regista.

Né di pretendere di avere in tasca le chiavi di lettura della complessa poetica o del pensiero artistico e umano di Lucio Fulci.

La sola forma in cui si può parlare credibilmente del poeta del macabro è quella delle emozioni.

Farsi sedurre dalle sfaccettature di un animo così poliedrico, a tratti oscuro, a tratti ironico ma sempre tanto geniale quanto pessimista e limitarsi a raccontarlo dal proprio punto di vista per i potenti ricordi e le suggestioni che questi sapeva regalare a chi lo incontrava.

Senza azzardare giudizi o arrivare a conclusioni assolute.

L’unica certezza in relazione a Fulci e alla sua opera è proprio il dubbio.

Ed è esattamente quello che fa Romagnoli, lasciando parlare lo stesso regista del suo lavoro, della sua carriera, come sceneggiatore e come regista, attraverso gli incontri e le conversazioni avute con lui.

Limitandosi ad essere fedele cronista di quanto gli veniva detto e lasciando allo stesso Lucio le conclusioni, le analisi, i pareri su quelli che considerava i suoi successi o i suoi fallimenti.

Addirittura riportandoceli a volte in forma di dialogo diretto con tanto di accento romanesco.

Di suo l’autore fa trasparire le sue sensazioni in quello che, andando oltre il semplice lavoro di biografo, era soprattutto un rapporto umano.

Lo fa raccontando il “suo” Lucio Fulci, fatto di telefonate ad orari antelucani, colpi di testa umorali e imprevedibili, convocazioni e decisioni prese su due piedi in modo istintivo e spiazzante.

Lo fa con un linguaggio niente affatto accademico, accessibile a tutti ma al contempo preciso e metodico.

Lasciando ben distinti i momenti in cui è il regista a parlare del cinema e del suo lavoro, da quelli in cui è l’autore che parla del rapporto che si va via via costruendo con Fulci.

Un libro che è a metà strada tra il racconto e il saggio di storia del cinema.

Che parte dagli esordi e attraversa la crescita, le sconfitte e le disillusioni, l’amarezza per l’oblio fino alla consapevolezza che qualcosa stava cambiando e al conseguente desiderio di ricominciare.

Particolarmente interessanti sono i resoconti degli incontri nell’ultimo periodo, quello che va da “Le porte del silenzio”, con una autoanalisi incredibilmente onesta e severa di quello che non può certo definirsi un successo, fino all’entusiasmo di quello che doveva essere il grande ritorno, “La maschera di cera”.

Entusiasmo che viene troncato dall’improvvisa e prematura morte di Fulci.

Il libro nell’edizione aggiornata continua e, oltre a regalarci una galleria fotografica ben curata sotto ogni aspetto, ci racconta quello che succede dopo la morte del regista con la sua riscoperta, la consacrazione e la nascita di una leggenda.

Palpabile la tristezza di Romagnoli per un riconoscimento arrivato tardi, ma soprattutto la nostalgia per quel film mai fatto, in cui Fulci avrebbe dovuto recitare per lui.

Una testimonianza di come “Lucio il truce” era sempre in grado di lasciare il suo segno in chiunque lo avesse conosciuto.

Nel bene o nel male, certo, ma indifferenza no… quella mai.

Colonna sonora “Timebomb” dei Chumbawamba

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