William Burke (Simon Pegg) e William Hare (Andy Serkis) sono due squattrinati immigrati irlandesi, che tentano di fare fortuna nella Edimburgo del 19° secolo.
Scansafatiche per professione, inetti per naturale inclinazione, i due irlandesi sono due imbonitori falliti: li troviamo nell’incipit della storia (scritta da Piers Ashworth e Nick Moorcroft) mentre cercano di vendere della muffa del formaggio, spacciandola come lozione miracolosa per le imperfezioni della pelle.
I soldi scarseggiano e, proprio quando la situazione sembra precipitare nel baratro più nero, Burke e Hare si trovano di fronte al “prodotto” che potrebbe finalmente renderli ricchi e rispettabili.
Poco importa se il “prodotto” in questione abbia gambe e braccia, un aspetto un po’ emaciato, ma inconfondibilmente umano. Se il mercato lo richiede, i due sono pronti a vendere cadaveri.
In una città come la Edimburgo del 19° secolo, forte nella corsa del progresso scientifico, grazie alla presenza di due facoltà di medicina, ovviamente concorrenti, le salme rappresentano una merce costosa, soprattutto se belle fresche e pronte per far mostra dei propri arti mozzati e degli organi interni, durante le sedute autoptiche.
Il dottor Knox (Tom Wilkinson) e il dottor Monroe (Tim Curry), a capo delle due facoltà rivali, combattono infatti da anni una guerra dove ogni scorrettezza è permessa, pur di riuscire ad entrare a passo sicuro nella storia della medicina moderna.
Le richieste di cadaveri si faranno sempre più pressanti e i cari irlandesi, dopo un primo defunto capitato tra le loro mani quasi per caso, si troveranno a doversene procurare di nuovi per non ritornare nella miseria e, soprattutto, per non deludere le ambizioni lucrative di due donne: la moglie alcolista di Hare (Jessica Hynes) e la giovane e frizzante attrice Ginny (Isla Fisher), di cui Burke s’innamorerà perdutamente.
Il cammino che porta Hare e Burke dalla frode all’omicidio seriale sarà costellato di incontri impossibili, gag al limite dello slapstick, e da un umorismo estremamente nero e intelligente.
John Landis (Blues brothers, 1980; Un lupo mannaro americano a londra, 1981), davvero a suo agio nella commedia, mette in scena un elegantissimo dramma in costume, che brilla per la sua finta semplicità; un’apparente faciloneria di fondo che, in realtà, nasconde un intricato lavoro di tessitura che parte da un fatto reale, rielabora un racconto di Robert Louis Stevenson e un’atmosfera tipica da commedia british, e s’impreziosisce con la fotografia di John Matheson, tutta lavorata su toni freddi e scuri, dei curatissimi costumi di Deborah Nadoolman e delle scenografie di Simon Elliot.
Non basta: Landis riesce a scombinare il punto di vista dello spettatore, inizialmente facendolo patteggiare per due simpatici assassini e, in secondo luogo, riuscendo a ridicolizzare la morte, portando un alone di normalità in un discorso del tutto extra-quotidiano.
Questi assassini chiedono la nostra bonaria complicità, e noi siamo pronti a supportarli.
Ladri di cadaveri è una favolosa commedia nera con un’aura di classicità, basata su un rapporto estremamente funzionale tra film e spettatore.
Come ogni volta, Landis guarnisce il già indovinato cast con una serie di guest star che, in questo caso, vanno da Christopher Lee a Ray Harryhausen a Michael Winner.