“Sto lavorando a un film di finzione. Sarà un film di genere sulla spiritualità”, ha dichiarato ieri sera con Andrej A. Tarkovskij durante l’incontro con il pubblico di Fare Critica – il festival interamente dedicato alla critica, ideato e diretto da GianLorenzo Franzì.
Dopo il successo di Andrey Tarkovsky. A Cinema Prayer (2019), il documentario dedicato al cinema di suo padre che è stato proiettato anche durante la kermesse calabrese, il regista ha deciso di cambiare registro ed esordire nella finzione. Il tema sarà “il rapporto con la spiritualità e la natura, particolarmente sentito nella cultura russa, ma il tutto sarà raccontato attraverso gli occhi dei bambini”, ha continuato Tarkovskij che presto inizierà a lavorare alla stesura della sceneggiatura.
Certo, l’eredità paterna pesa inevitabilmente sulle sue spalle – “Mio padre è certamente una figura ingombrante, ma ho imparato moltissimo da lui”. Quello che è certo è che Tarkovskij non vuole in alcun modo emulare l’arte del padre, tutt’altro. Infatti, “molti, troppi, registi cercano di fare una sorta di collage di altri autori che amano o che li hanno ispirati, ma così il rischio è di non riuscire a creare un proprio linguaggio visivo. Diviene un vero e proprio problema d’identità, che porta ad un’incapacità di osare, ed è il problema di gran parte del cinema di oggi – ha continuato il regista –, se uno ha qualcosa da dire e sente di essere un artista deve rischiare. Se si tenta di imitare è la fine”.
Ma non solo cinema, tra i progetti a cui sta lavorando, c’è anche il museo dedicato al padre a Firenze, la cui lavorazione era già stata annunciata alla fine dello scorso anno. “Il Covid ha rallentato il tutto, ma per fortuna ora stiamo definendo gli ultimi dettagli. Abbiamo chiesto degli spazi al comune e, ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma a breve prenderà finalmente vita”.
Il discorso, poi, si è naturalmente spostato sul ruolo della critica, che nel caso di Andrej Tarkovskij, per esempio, non sempre è stata in grado di catturare la sua arte – “L’errore peggiore dei critici è stato quello di considerare mio padre solo come un regista. Una definizione fin troppo riduttiva. Per capire il cinema di mio padre è necessario parlare di arte, letteratura, poesia. E, purtroppo, questa lettura è sempre mancata. Probabilmente anche perché all’epoca di mio padre non esisteva un cinema del genere. Il suo è un cinema che va prima di tutto vissuto. Mi ripeteva sempre che la cosa più importante per lui era l’impatto emotivo che riusciva a produrre sullo spettatore. La sua era un’arte poetica, non a caso era figlio di un poeta, mio nonno, e in quanto tale è necessario interpretarla con un linguaggio poetico”.
La conclusione, poi, è stata una riflessione sulla necessità dell’arte, vissuta come vera e propria urgenza nella cultura russa, e su una sua lettura critica capace di coglierne e modularne il linguaggio.