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‘Il giovane Wallander’: la nuova serie su Netflix
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4 anni agoon
La storia
Young Wallander, trasmesso da Netflix a partire dal 3 settembre, parla del giovane commissario, conosciuto da tempo, ma è stranamente ambientato nel presente. La storia ha parecchi momenti intriganti nell’azione e nell’intreccio. Inizia con un crimine agghiacciante, di fronte al quale Wallander, che ne è testimone, giustamente si ripromette di trovare l’assassino, a tutti i costi.
Lo sfondo è quello della città di Malmo, dei nuovi immigrati e del razzismo svedese, che, ahinoi, era presente anche nel romanzo di Henning Mankell Assassino senza volto (trent’anni fa!). Su un caso molto difficile e sulle scoperte, professionali e personali, di Kurt Wallander si costruisce tutta la serie.
Le tante versioni del commissario Wallander
Sarebbe quasi meglio non conoscere il commissario adulto, perché si è tentati di spiare i segnali che riconducono il personaggio agli altri, quello di carta e quelli delle serie tv. Ma poi, a quale delle quattro versioni di Wallander?
I dodici romanzi di Henning Mankell? I film svedesi con Rolf Lassgård (1995/2007), prima interpretazione del commissario? Dei quali però, forse, non esiste la versione italiana. La seconda serie svedese con Krister Henriksson (2005/2013)?
O l’adattamento, inglese ambientato in Svezia, con Kenneth Branagh (2008/2016), di cui ci siamo occupati su Taxidrivers? Quest’ultimo lo conosciamo di più e ci è molto piaciuto per l’intensità e la fragilità del protagonista.
Il giovane, troppo giovane Wallander
È inevitabile, seguendo la serie di ora, osservare come il ragazzino sullo schermo, così timido e un po’ imbranato, stia vivendo le esperienze lavorative e personali che lo faranno diventare quel personaggio sofferto che sappiamo.
L’interprete di Wallander giovane è Adam Palsson, trentadue anni, ma dimostra i venticinque del suo personaggio. In Svezia è conosciuto anche come cantante di indie rock; altrove perché ha recitato nella terza serie di The Bridge.
A vederlo la prima volta si pensa che abbia troppo la faccia da bravo ragazzo. Bello, ma anonimo, almeno fin quando non ci affezioniamo. Pare capitato a fare il poliziotto per caso, senza averne minimamente la stoffa. Si farà, ne siamo certi. Ma intanto, alla fine dei due primi episodi, le prende di santa ragione. Vivere nel quartiere malfamato di Rosengard a Malmo, non è che gli faccia tanto bene.
Nella realtà siamo in Lituania (a Vilnius), che ha prestato lo stesso ambiente di forte immigrazione e problemi delinquenziali anche ad altre serie, come Chernobyl e Stranger Things. Un set di spazi degradati come tante altre periferie, tra i quali Kurt Wallander con il suo aspetto così perbenino stona parecchio.
Un po’ più di fiducia nel giovane Kurt
Nel giro dei sei episodi impara comunque la complicità con il capobanda, facendo leva sui suoi affetti e conquistandone la fiducia. Oltre a sperimentare le sue intuizioni che lo fanno procedere solo, a caso apparentemente risolto, perché appunto le apparenze non sono mai risolutive.
L’indagato principale risulterà come sempre innocente perché il male si annida là dove non ce lo si aspetta. Ma intanto noi cominciamo ad avere più fiducia in lui,
Però, una serie così breve è insufficiente a prefigurare il personaggio che verrà. Quel fascino che nasce dal confine sempre ridisegnato tra dubbi e determinazione, le luci e le ombre, la voglia di solitudine e il desiderio di rinnegarla.
E l’inquietudine. Ha detto Mankell dei suoi romanzi: “Ho capito che il sottotitolo della serie doveva essere I romanzi dell’inquietudine svedese”. Una condizione che Kenneth Branagh è riuscito a restituirci in ogni sua sfumatura, più del suo stesso inventore.
La prima apparizione del Wallander di Henning Mankell
Nel primo libro del 1991, Assassino senza volto, il protagonista ha già quarantadue anni. La moglie Mona, che il giovane Wallander ha appena incontrato nella nuova serie (Ellise Chappel), lo ha lasciato da poco. Per Mankell fa la parrucchiera, ora è un’attivista dei diritti civili, ma non importa, anzi è più interessante così.
Nel primo Wallander di carta la figlia, Linda, è una diciannovenne che anni prima ha tentato il suicidio e ora gli si nega. Fermamente. È finita anche l’intesa con il migliore amico incontrato ora dopo tanto tempo. Insomma, brancola in una desolazione affettiva senza rimedio.
Ma è lamentoso, tristanzuolo, metereopatico. Continua a ripetersi (come mantra senza sollievo) le stesse formule ossessive : “Devo accettare le cose come stanno”. Oppure: “C’è un tempo per vivere e uno per morire”.
I suoi pensieri vengono esplicitati in modo talmente diretto che è come se non li avesse introiettati. Sfacciatamente le persone del caso poliziesco e quelle del suo privato si sovrappongono, in un’elementarità spiazzante. Davvero, riletto ora, non si capisce come abbia potuto avere così tanto successo! È lontanissimo dagli ispettori e commissari di tanta letteratura, tanto cinema e tanta tv, ancor più da quello carismatico reso dal cinquantenne Kenneth Branagh.
Che ha continuamente l’aria stropicciata, lo sguardo perso, la poca cura di sé come se niente potesse alleviare le sue pene. Sofferente in ogni inquadratura, ma in maniera più autentica.
Alla fine della serie, ci si pone la stessa domanda dell’inizio: a quale Wallander adulto ci si ispira?
Se Adam Palsson, come si spera, vorrà somigliargli, il percorso è ancora lungo. A meno che in questa nuova serie non ci si sia ispirati ai racconti scritti sempre da Mankell nel 1999, Piramide, ambientati quarant’anni prima, che parlano appunto di un Wallander alle prime armi. Le vicende sono comunque molto diverse da quelle della serie attuale.
O a meno che si sia voluto creare un prodotto del tutto autonomo che, in questo caso, però, faticherebbe a decollare.
Disturba molto, e confonde, l’ambientazione nel presente. Perché se di giovane Wallander si tratta, ci piacerebbe che almeno i tempi fossero rispettati, come giustamente avviene ne Il giovane Montalbano. Sarebbe stato bello anche sentirlo parlare nella sua lingua, come del resto anche per Kenneth Branagh, ma sono produzioni inglesi, rassegniamoci.
Ambientazione e luci
Le location, spente, non seducono come in altre serie nordiche, tipo Deadwind o I delitti di Walhalla, i cui paesaggi rapiscono tanto quanto la suspense dei casi da risolvere e le storie dei protagonisti. Non è colpa di nessuno: le scenografie dei sobborghi di Malmo, queste sono. Anzi renderle più livide aumenta l’angoscia di doverci vivere.
Le luci degli esterni quindi sono fredde, gli interni molto bui, i colori si accendono davvero solo nell’ultima puntata, virando verso tinte decise come il rosso, che danno all’insieme un po’ di pathos in più.
Finale aperto
Il finale aperto ci fa pensare ad altri, futuri momenti di crescita del nostro giovane Kurt, che presto dovrebbe trasferirsi a Ystad, in Scania, dove l’abbiamo conosciuto nei romanzi di Mankell, e nella serie televisiva che tanto ci ha appassionato.
Dove i paesaggi saranno più belli, e più avvincente il contrasto tra la loro purezza e le ombre che attraverseranno l’anima di Wallander.
Il Giovane Wallander è una produzione Yellow Bird, con Berna Levin come produttore esecutivo. La regia è affidata a Ole Endresen e Jens Jonsson, la sceneggiatura a Ben Harris.