The Best is yet to Come presentato alla Biennale del cinema di Venezia.
Tra le convinzioni più stupide, nonché subdolamente pericolose, c’è quella che, per il tramite di un processo lento quanto inesorabile, è giunta a fraintendere fino a sovrapporli l’accesso a un più o meno costante regime consumistico e la maturità di una società realizzata.
Un abbaglio del genere, oltre a dirla lunga sulle capacità distorsive maturate da un sistema di persuasione oramai svincolato da qualunque controllo (oltreché, ma questo è banale, privo di qualsiasi ritegno), mano mano si è riprodotto, grazie a una sorta di irresistibile partenogenesi, arrivando a modellare su di sé ogni esperimento collettivo.
Da questo punto di vista, la parziale immunità di cui aveva goduto una nazione-continente come la Cina, per secoli e per radici storiche e culturali sospesa in un limbo tanto artificiosamente costruitole attorno quanto, sovente, con indubbia tenacia, a propria volta consolidato e difeso, non poteva che esporsi al più classico dei conti alla rovescia, culminato – e siamo ai giorni nostri – in quell’ibrido seducente ma sinistro riconducibile a una tirannia a trazione capitalista con cui il mondo sedicente libero è obbligato a confrontarsi.
Il punto di saldatura tra queste contraddizioni prende a insistere giorno dopo giorno sulla vita del ventiseienne Han Dong/Ke (sbozzata su quella del vero Han Fudong, reporter vecchia scuola, di cui il film di Jing ripercorre i momenti cruciali della carriera e omaggia di una fuggevole apparizione), aspirante giornalista nella Cina di inizio nuovo millennio, tra i furori e le illusioni di un miracolo economico senza pari e il progressivo delinearsi dei disagi e delle prevaricazioni a esso conseguenti.
La trama
Ex operaio, squattrinato ma risoluto, Han si arrabatta vendendo il proprio estro di segugio della notizia un tanto al pezzo a vari giornali di Pechino, tra i quali ricorre il Jinchen Times. Qui, il suo non comune impasto di idealismo e partecipe aderenza ai fatti viene al fine notato e a ruota attestato da una collaborazione da interno – niente di più di un accordo capestro da manovale intellettuale – buona perlomeno a piazzare mani e piedi in una redazione. Svezzatosi di colpo dall’alone romantico con cui ammantava la professione al cospetto di una inchiesta riguardante un incidente minerario nella Provincia dello Shanxi liquidato dalle autorità locali con i quattro soldi versati a titolo di risarcimento ai familiari delle vittime previo l’impegno scritto dei medesimi di accettare il compenso e chiudere la bocca per sempre, casualmente il Nostro si imbatte in un traffico illegale basato sulla vendita clandestina di sangue umano e annesse contraffazioni dei referti medici inerenti a varie patologie, tra cui l’Epatite B, ambito, quest’ultimo, fino a quel momento regolato da una legislazione talmente severa da discriminare ab origine percorsi scolastici e iter d’impiego.
La critica
Ritmato con una qual armonia per il tramite di una scansione interna caratterizzata dal pedinamento discreto – fluido ma non corrivo – delle vicissitudini lavorative e private del protagonista – Han ambisce, senza troppe reticenze, a un quadro retributivo stabile dimostrando un rapporto passivo o, a essere retorici, già ben de-ideologizzato con l’universo del Capitale e delle Merci, verso cui l’orientamento dottrinale del paese che lo ha generato dovrebbe tenere, invece e in teoria, tutt’altro atteggiamento; riscopre il valore della solidarietà e dell’empatia dopo che i presupposti materiali della sua esistenza si sono normalizzati; indulge moralisticamente sulla presunta purezza di intenti legata al mestiere soprassedendo sulla prassi spesso manipolatoria che esso implica – a margine di una flebile ma sentita rivendicazione circa la primazia del giornalismo d’inchiesta sull’attuale strapotere del chiacchiericcio redazionale spesso e volentieri di pigra derivazione digitale, l’opera di Jing, via via e allo stesso tempo, si arricchisce di spunti drammatici di pressante rilevanza simbolica (le già citate norme stringenti in materia di salute pubblica di fatto finiscono per estromettere milioni di persone dal consesso sociale) e ne riduce la carica eversiva diluendola in uno schematismo esplicativo-didattico a futura edificazione delle masse (gli inserti documentali sparsi qua e là a ritrarre l’autentica condizione degli emarginati per tare acquisite o ereditarie), da un lato; screziandola di tonalità melodrammatiche (l’amara parabola dell’amico fraterno Zhang Bo/Song, caso umano suo malgrado, impossibilitato a perfezionare i propri studi perché ogni volta ricacciato indietro dalla tabe originaria dell’Epatite; il lato patetico dell’Autorità la quale, seppur corrotta, tenta di sublimare la contingenza rapace di una consuetudine vantaggiosa sull’altare delle buone intenzioni), o poggiandola su una concatenazione di circostanze che combaciano con eccessiva naturalezza, quindi poco verosimili (la relativa facilità priva di ricadute con cui Han viene in possesso della documentazione compromettente riguardo le falsificazioni dei decisivi test medici), dall’altro.
Fatta quindi salva la carica testimoniale di una mobilitazione civile a mezzo stampa che costringe (nel 2010) il Governo Centrale a mettere mano a una contorsione del diritto senza dubbio maldestra e iniqua, la sensazione prevalente è quella di una dimensione episodica di consapevolezza e riscatto che critica i rapporti di forza esistenti ma non arriva a minarne i presupposti e soprattutto a ridisegnarne i possibili confini futuri, come, ad esempio, traspare spesso dai lavori di un altro regista cinese, Jia Zhang-ke – qui in veste di produttore – capace di infondere sul cangiante paesaggio – fisico, umano e morale – della sua terra non tanto il prodotto (la giusta causa) dell’antico attrito fra ottimismo della volontà (nel nostro caso, presente sin dal titolo) e pessimismo della ragione, quanto lo slancio incoercibile scaturito dall’incontro tra una sfinita insoddisfazione e una smodata irrequietezza, imprevedibilità che da sempre il Potere teme più di ogni altra cosa.
TFK