Zombie di Giorgio Diritti, prodotto da Aranciafilm con Rai Cinema in collaborazione con Fondazione Fare Cinema, è stato presentato in anteprima alla trentacinquesima Settimana della Critica di Venezia 77 e racconta le drammatiche conseguenze dell’alienazione parentale. Di questo e altro abbiamo conversato con il regista Giorgio Diritti.
Zombie nasce da premesse diverse dai tuoi lavori precedenti. Innanzitutto è il saggio finale del corso cinematografico organizzato da Fondazione Fare Cinema diretta da Marco Bellocchio e da un tema dato come quello dell’alienazione parentale. Quanto queste modalità hanno influito sul tuo dispositivo e sull’organizzazione del tuo lavoro?
Mi è difficile scindere la mia persona dagli incontri che poi si trasformano in qualcosa capace di dare dei frutti per cui dal punto di vista della dimensione di quello che è stato il corso fatto insieme ai ragazzi – che poi sono anche già adulti – si è riaccesa da un lato la curiosità di capire chi sono, come vivono e cosa fanno queste persone. Insieme a loro e ai docenti del corso è nato un percorso di scrittura in cui ho invitato i partecipanti a scrivere qualcosa di loro, qualcosa che li aveva toccati al punto da influire sulle loro vite o su quelle di amici e famigliari. Ho chiesto che parlassero di cose che conoscevano perché sovente si tende a ricalcare situazioni già viste al cinema e in televisione in cui a mancare è la forza dell’autenticità. Cioè la vita nella sua verità talvolta ha una potenza maggiore della rappresentazione e nel caso specifico la sensazione è che avessero risposto in maniera meno approfondita di quello che invece potevano fare quindi sono saltate fuori storie, sensazioni e racconti di esperienze differenti a secondo del loro percorso familiare o lavorativo. La sofferenza a cui conducono le separazioni è venuta fuori in tutta la sua drammaticità. In alcuni casi con elaborazioni positive, in altre con sentimenti di maggiore difficoltà. A emergere è stata la dimensione di conflitto in cui sovente i ragazzi o i loro amici sono diventati le armi della guerra tra i loro genitori. Da questo contesto sono nati i soggetti e le sceneggiature più interessanti. Quella utilizzata per Zombie mi sembrava la più giusta per secchezza, asciuttezza e anche per la corrispondenza con la dimensione produttiva.
Dal punto di vista della sceneggiatura per la prima volta hai avuto a che fare con un elaborazione non tua. Immagino che questo abbia comportato un ulteriore interpretazione oltre a quelle di solito necessaria a mettere in scena la parola scritta.
Lavorando a stretto contatto con i ragazzi ho seguito ogni fase dello sviluppo del cortometraggio. Questa collaborazione ha stimolato una voglia di capire che andava oltre la la sceneggiatura e che nella realizzazione del film mi è servito per trovare la giusta misura e uno sguardo adatto a quello che volevamo fare. In questo caso si trattava di asciugare e stringere. Più le situazioni risultavano tali più nella risoluzione finale si verificava l’effetto che hai potuto vedere.
Continuando a esaminare le discontinuità di Zombie rispetto ai tuoi film precedenti c’è da rilevare il fatto che per la prima volta lavori in un ambiente allo stesso tempo metropolitano e contemporaneo.
Di solito vado in campagna, diciamo così (ride, ndr) e in mezzo alla natura, qui invece no perché poi in fondo in questo caso le sofferenze umane sono figlie della quotidianità e dei ritmi del tempo e del lavoro, della scuola, della vita da casalinga o da operaio o da professionista. Dunque era fondamentale calarsi in una dimensione che fosse in senso ampio la più riconoscibile. Cioè non è un caso che la situazione e la vita di cui si racconta nel corto sia simile in ogni dove. E’ così in ogni luogo del mondo eccezion fatta per le facce che cambiano ogni volta. Questo aspetto mi è sembrato da subito molto importante. In più ho trovato molto curioso il gioco insito nel titolo che è lo specchio di quanto capita sia ai protagonisti che a ognuno di noi, sopratutto se ci riferiamo ai bambini. Nella storia c’erano una serie di elementi che funzionavano e che comunque sono figli della società in cui viviamo da cui la scelta dell’ambientazione. Detto questo mi auguro che Zombie sia utile a riportare l’attenzione sul ruolo dei genitori, sottolineando come i dissidi familiari non debbano mai trascendere le responsabilità dei primi. Cioè a dover essere salvaguardata è l’attenzione nei confronti dei figli e della loro tutela. Se un tempo si diceva qual era il messaggio di un certo film quello sotto traccia presente In Zombie voleva essere quello di ristabilire l’importanza e il rispetto dei genitori nei confronti dei figli.
In fondo il tema dell’alienazione parentale seppur non centrale era presente anche in Volevo Nascondermi tanto che si potrebbe dire che quel film mostra le conseguenze di quanto accade dopo la fine di Zombie.
Beh volendo c’è un legame che è soprattutto quello dei traumi sofferti nel corso dell’infanzia. Peraltro credo che ognuno di noi se va a scavare ha qualche piccolo segreto con cui ha dovuto fare i conti nella sua vita da adulto e nelle relazioni affettive quindi ancor più sarebbe fondamentale per i bambini riuscire a creare delle condizioni di armonia prive della negazione affettiva e delle guerre casalinghe. Quindi è vero che i due film si parlano dal quel punto di vista li perché in fondo nella dimensione della vita ciò che noi respiriamo in casa e negli ambienti che frequentiamo è destinato a darci l’imprinting. Se al posto dell’armonia, dell’affettività e del calore umano c’è solo sofferenza è logico che il bambino una volta adulto è destinato ad andare fuori di testa oppure dallo psicanalista. Questo purtroppo è una costante.
Direi che tutto il tuo cinema parla di persone in fuga. Zombie paradossalmente racconta invece di chi rimane, di chi è vittima di questa fuga.
Si, è come se fosse lo specchio degli altri, cioè di chi subisce e come dici tu è l’anteprima di certe storie. Zombie sposta l’attenzione sulle modalità con cui nasce la dimensioni di infelicità ma soprattuto su qualcosa che secondo me cammina ed è presente in mezzo a noi. Cioè se uno pensa a chi ha dei figli in età scolastica può essere sicuro che qualcuno di questi sta vivendo una situazione simile così come è sicuro che costoro pagheranno nell’età adulta la dimensione di fatica e di non elaborazione vissuta nel corso di questi conflitti. Tornando alle chiacchiere fatte a Bobbio con i ragazzi e i genitori emergeva in maniera forte come queste vicende erano ancora presenti e vive in tutti loro nonostante fossero accadute molti anni fa. Questo vuol dire che il percorso di evoluzione è comunque complicato. La cosa terribile della cosiddetta alienazione parentale è il fatto che il bambino trovandosi in mezzo a questa conflittualità a un certo punto se ne sente responsabile. Anche se non coscientemente diventa la persona che oltre a subire sente anche la colpa per quello che è successo ai genitori. Nel corto la bambina diventando cosciente della situazione avrà sicuramente un retro pensiero per il quale percepirà l’assenza del padre come una risposta alla sua inadeguatezza e non come una negligenza da parte del genitore.
Sono d’accordo, chi subisce il danno è doppiamente vittima. Senza dimenticare il paesaggio circostante il tuo cinema riesce sempre in maniera magica a condensarsi attorno ai personaggi restituendone al contempo sia la dimensione sociale e direi anche antropologica – ho in mente il film su Ligabue solo per citare il tuo ultimo lavoro – sia la dimensione emotiva.
Beh è un po’ quello che tento di fare ed è un attenzione che cerco sempre di perseguire innanzitutto perché credo che noi siamo inseriti in un contesto di vita circondati da una serie di cose ma ciò che si stampa in noi sono innanzitutto le emozioni. Nel mio lavoro le si ritrovano in maniera diretta come parte del narrato oppure sotto forma di evocazione derivata dall’ambiente in cui si è, dalle facce, dai colori, dai vestiti, dal fiume, insomma da queste cose quà. A me succede così poi penso che ogni regista abbia una sua naturale modalità espressiva. La mia è questa. E faccio un passo indietro dicendo che essendo stato girato a Bobbio la cosa più semplice in Zombie sarebbe stata evidenziare quelle cose che sono belle e tipiche di quella cittadina – e la cosa penso avrebbe fatto anche piacere ai bobbiesi – però per me era importante far si che quelle piazze e quelle strade fossero magari riconoscibili per la gente del posto ma soprattutto uguali a quelle che avremmo potuto trovare in Veneto, in Calabria. Mi interessava che non avessero una collocazione così assoluta e definita perché in fondo quel tipo di storia risuona e vibra tra le case delle grandi come delle piccole città. Quindi era questo il significato.
Come spesso succede nei tuo i film restituisci le piazze e le strade sempre in una dimensione privata e intima più che pubblica e collettiva facendole diventare dei veri e propri luoghi dell’anima. A livello drammaturgico invece mi sembra che tutta la prima parte sia organizzata in funzione della svolta finale. Lo si evince tra l’altro dal rapporto tra le figure e lo spazio – parlo dell’abitacolo dell’autovettura, degli interni del bar con gli sfondi sfocati e di quelli della casa famigliare – quest’ultimo correlato ai personaggi in un modo che sembra evocare il senso di oppressione. Al contrario nella seconda ad accompagnare la trasfigurazione dei personaggi ci sono sequenze girate in esterni e in una maniera che sembra andare di pari passo con le azioni poste in essere dalla madre di Camilla.
E’ proprio così. Quello che hai detto è il percorso scelto. L’idea è stata quella che tu hai ben raccontato dunque non mi resta da aggiungere altro a quanto hai detto.
La scena della vestizione sembra fare da premessa alla sequenza conclusiva. In essa la madre di Camilla fa indossare alla bambina il costume di Halloween come lo si farebbe con un condannato a morte prima dell’esecuzione. A surrogare tale sensazione c’è anche il particolare del cappuccio che da li in poi celerà il volto della bambina.
In parte si perché poi ci sono cose che subliminalmente arrivano nel senso che quando la costumista mi ha proposto un pò di cose su Halloween, al di là dei vestiti tipici mi ha fatto consultare delle foto delle prime celebrazioni della festa – credo che fossero degli Stati Uniti o dell’Inghilterra degli anni 50 o forse addirittura prima – e tra queste ce n’era una in cui le persone indossavano in testa questa specie di cartoccio con due buchi per gli occhi che li rendeva simili a quelli del Ku Klux Klan. Come percezione però questa cosa nella sua semplicità mi ha ricordato quando ero bambino in cui anche io giocando avevo in testa il cartoccio del pane in cui si facevano i buchi per farne maschere di carnevale. Scegliere un accessorio del genere mi è sembrato un modo curioso per risolvere il passaggio in cui la figlia riconosce il padre e non viceversa ma soprattutto dava la sensazione che tu hai colto, cioè quella di qualcuno che è incappucciato e che per questo perde il suo volto, la sua identità, la sua personalità. Tale persona non è solo mascherata ma annientata, diventa quasi uno Zombie, cioè qualcosa che non c’è più perché ha perso se stesso. Un punto di vista secondo me utile alla chiusura del film. Come dicevi tu si è trattato a livello inconscio di una preparazione al dramma che di li a poco si consumerà. Questo pseudo costume in qualche modo contribuisce a creare la dimensione di risentimento e di agitazione della madre, poi foriera della sua azioni successive.
Tra l’altro la mamma appiccica addosso al costume adesivi raffiguranti dei serpenti colorati come a segnalare il tradimento che sta per compiere nei confronti della figlia.
Si, questa è casuale nel senso che gli adesivi sono stati trovati e appiccicati sul costume erano fatti così. Però in effetti anche questo particolare come dici tu, volendo va in direzione della lettura generale di cui parlavamo. Ti devo dire però che nel momento di girare non ci avevo pensato.
In Zombie c’è un inquadratura diversa dalle altre che a me ha trasmesso due suggestioni di cui ti voglio chiedere: parlo della soggettiva in cui Camilla dai buchi del cappuccio osserva gli altri bambini venirgli incontro eccitati e divertiti. Da una parte mi è sembrato il modo per segnalare il passaggio a una dimensione narrativa che non è più quella della madre bensì della bambina; allo stesso tempo la maniera per sottolineare la diversità tra la spensieratezza degli altri bambini che corrono per le strade tra urla e schiamazzi e la prigione silenziosa che da li in avanti separerà Camilla dai suoi compagni di gioco.
E’ così. Nell’inquadratura ci sono entrambe le sensazioni. Era importante far sentire il mutamento del suo punto di vista. Cioè non è solo lei che è in mezzo agli altri ma diventa lei in una dimensione in cui si sente ingabbiata dalla madre che la sta portando via da un momento ludico, quello in cui anche lei potrebbe essere parte del gioco degli altri bambini. Però poi c’è anche la chiave di lettura che dici tu: si torna al rapporto di lei con la madre e dunque a quello con la sua famiglia, In quel senso la relazione tra lei e la madre diventa ancora più assoluto perché sono loro due a camminare insieme ed è la madre che le dice di suonare a un campanello diverso da quello scelto da Camilla. Dunque parliamo di una sequenza importante perché rappresenta l’inizio della costruzione di quella che sarà la chiusura.
Tra l’altro nella sequenza finale si compie la fine del processo di trasfigurazione di cui si parlava prima. Quello in cui le protagoniste diventano delle figure fantasmatiche, degli Zombie appunto. Le vediamo per un attimo in campo lungo camminare a passo svelto e subito dopo scomparire per le stradine della città. E’ un’inquadratura struggente anche nel suo essere lontana e quindi nel sottrarre allo spettatore la possibilità di consolare idealmente Camilla standole vicino in un momento così drammatico. In realtà quella scena ci separa in maniera dura e per sempre da quella bambina.
Da parte tua c’è grande cura e osservazione perché la sequenza nasce proprio dall’idea di vedere loro nella dimensione di una città che attraversano per poi scomparire, ritornando a quell’anonimato da cui erano state per un attimo sottratte. Succede spesso alla gente che subisce questi dolori. Peraltro nell’esperienza emotiva di molti bambini a rimanere dentro come dicevi tu è la mancanza di quell’abbraccio e del riscontro di un affetto che non c’è. Cose che rimangono tra virgolette nel vuoto di quell’ultima immagine. Da questo punto di vista c’era la voglia di raccontare il senso di spaesamento, la sospensione e la solitudine. Di restituire lo smarrimento della bimba in particolare ma forse anche della madre a causa della perdita del senso reale dell’affettività genitoriale. Perché poi il punto è che se non si è capaci a gestire le cose si va in una dimensione che fa disastri. lasciando le persone sole. E quando uno è solo è sempre in difficoltà.
Con Matteo Cocco – già direttore della fotografia di Volevo Nascondermi – fate delle scelte ben precise. Nella prima parte la luce è poco luminosa e il sole sembra non esistere. Nella seconda invece sia nella casa che all’esterno di essa create la dimensione di cui parlavi prima e cioè quella sospensione resa da una luce quasi metafisica e rafforzata da sfumature dorate volte a segnalare la nostalgia per qualcosa che non c’è più.
Si, l’idea è stata proprio questa. Dopo l’esperienza di volevo nascondermi con Matteo oramai ci guardiamo negli occhi e quasi ci capiamo. Lui ha una grande sensibilità nella lettura che si sta facendo e da li viene fuori il percorso che hai visto. Matteo ha una grande sensibilità non solo umana ma anche artistica, sa capire l’emozione e quello che sto raccontando e contemporaneamente riesce a esprimerlo al meglio. Dopodiché siamo stati anche un po’ aiutati perché quando abbiamo girato gli esterni in macchina il tempo era come sospeso, con quei cieli lattiginosi e con un po’ di pioggia quando facevamo i camera car. Questo per dire che nel nostro mestiere ci vuole anche un po’ di fortuna e tante volte quello che può sembrare una cosa storta a guardare bene si rivela il contrario.
Volevo Nascondermi aveva già messo in evidenza di come gli attori nei tuoi film escono valorizzati: penso per esempio a Paola Lavini alla quale sono sufficienti poche pose per dare vita a un ruolo memorabile al punto da fare venire voglia di continuare a guardare la vita del suo personaggio anche oltre le fine delle riprese. La stessa cosa succede in Zombie a Elena Arvigo e Greta Buttafava. Pur trattandosi di un cortometraggio riesci a mettere gli attori nella condizione di dare vita a un personaggio e di farlo entrare nel cuore dello spettatore in pochi minuti. Non penso sia una cosa facile.
Non è facile. Da questo punto di vista è fondamentale il lavoro di sintesi che in parte si compie in fase di scrittura, in parte in fase di montaggio e anche durante le riprese. Cioè, credo si debba sempre avere la capacità di trovare la giusta misura perché per riuscire a colpire la resa deve essere intensa e nel contempo non dare la sensazione di qualcosa di già visto o di un’enfasi che fa perdere allo spettatore il contatto dalla persona che sta guardando sullo schermo. Credo sia fondamentale un lavoro di centratura dei tempi e forse anche delle pause. Il montaggio poi aiuta a creare dei campi in cui lo stringere e l’allargare da modo di trovare la dimensione giusta per creare quel qualcosa. Prima citavi Paola che conosco da anni e con cui per vari motivi non sono riuscito ad avere l’occasione di lavorare ne L’uomo che verrà. Secondo me lei ha un’intensità, un volto e delle capacità particolari che bucano lo schermo se gli si da la possibilità di essere con quella forza lì. D’altronde un attore bravo con uno sguardo ti tiene inchiodato alla storia. Parlando di volti altrettanto possiamo dire di Elena Arvigo (la mamma di Camilla, ndr) che ha quella forza di restituire sensazioni, emozioni e sospensione. Lei riesce a esprimere bene queste cose in gesti semplici che però andavano fatti nel modo in cui Elena prende il cibo dal frigo e si mettersi a mangiarlo. Bisogna sentire il senso di quel gesto in maniera verosimile ma anche magnetica. Quando questo succede lo spettatore non può non restare con i personaggi e come tu hai detto per la Pina di Volevo Nascondermi, continuare a stare con loro per vedere come va a finire la loro storia.
Volevo chiudere chiedendoti del cinema che ti piace
Sono appassionato di quel cinema più introspettivo che mi aiuta a capire qualcosa di più del mondo e della vita. Un tempo questo veniva definito d’autore ed è quello a cui mi sento più affine. Amo l’universo del documentario che ha una forte dimensione di realismo così pure Sergio Leone e i western. In definitiva è come andare a mangiare al ristorante: non è detto che sia meglio il tailandese dell’emiliano o della cucina ligure. Io mi trovo bene laddove ciò che mangio è buono. Altrettanto dico che la definizione di cinema è talmente ampia da far si che ci siano tante cose belle . L’importante è che siano fatte bene. Purtroppo ultimamente sento un po troppo il proliferare dei cosiddetti prodotti di intrattenimento il che mi da fastidio perché come spettatore mi sento equiparato a un criceto che gira la ruota. Penso che il cinema mi deve prendere, divertire, dare emozione e lo può fare anche attraverso il comico e la commedia. Come dicevo l’importante è che ci siano bravi cuochi e che le materie prime siano buone. Le serie ad esempio hanno una potenzialità straordinaria che però rischia di creare un meccanismo di ripetizione, di similitudine, di sfruttamento continuativo che è distante da quella diversità da cui di solito nasce il buon cinema.