Non basta una sola proiezione. The book of vision di Carlo S. Hintermann va visto più volte. Per la bellezza delle inquadrature, per l’eleganza dei costumi, per la cura dei dettagli. È una favola raccontata in due tempi che si intrecciano tra loro. Il primo è il Settecento, ovvero l’epoca delle fiabe dei Fratelli Grimm. Il secondo tempo è il presente, che mostra ai giorni nostri gli stessi volti visti nel passato. Gli interpreti dei personaggi femminili e maschili riappaiono con l’opportunità di vivere nuove esistenze. Senza dubbio un’idea originale, che consente all’autore di esprimere molte cose. Prima di tutto fiducia nell’evoluzione sociale e in quel progresso tecnologico che serve l’umanità in senso positivo. Ma anche speranza di riscatto per le vite e le voci disperse nel buio dei secoli perché troncate dall’ignoranza, dall’avidità o dall’invidia. E soprattutto fede nell’amore come sentimento fondamentale della maternità/paternità, del rinnovarsi della natura, della creazione universale.
The book of vision a Venezia
Il film, che ha aperto la Settimana internazionale della critica di Venezia 77, è stato girato in lingua inglese con un cast internazionale. Protagonista è Eva (interpretata dall’evanescente attrice olandese Lotte Verbeek), che abbandona la carriera di oncologa per studiare la storia della medicina e si imbatte nel manoscritto del medico prussiano Johan Anmuth (impersonato dall’eccellente attore britannico Charles Dance), vissuto nel Settecento.
Natura e coreografie
Carlo S. Hintermann ha collaborato allo straordinario film di Terrence Malick The tree of life, che si aggiudicò la Palma d’oro a Cannes nel 2011. Certamente un’esperienza stimolante, che continua ad influenzare la sua ricerca e il suo lavoro. In The book of vision c’è un albero vivo e vitale, che reagisce ai sentimenti negativi dell’umanità e sublima la violenza con movimenti che sono vere e proprie coreografie. Inquietante come un altro albero cinematografico, quello dei morti voluto da Tim Burton ne Il mistero di Sleepy Hollow, il tronco ramificato di Hintermann è estremamente sensibile al concepimento, soprattutto quando per motivi diversi un genitore rifiuta il nascituro. La libertà passa per l’accettazione della nuova vita.
Un ponte intinto nell’inchiostro
A far da tramite fra i due mondi che caratterizzano il film non c’è una costruzione in acciaio come il ponte della commedia romantica Kate & Leopold. Ma non è nemmeno un mezzo liquido come quello che mette in comunicazione l’antica Roma con il Giappone nel manga/film Thermae Romae. Qui il luogo di contatto è circoscritto e allo stesso tempo sconfinato come possono esserlo le pagine di un antico volume. Che un libro faccia viaggiare nel tempo e nello spazio non è difficile da immaginare, anzi lo sperimentiamo ordinariamente. Il film si apre con i passi di un bambino sul pavimento di legno della biblioteca di una dimora settecentesca. Vergato a penna d’oca, the book of vision è un manoscritto diventato testimone dei pensieri e delle emozioni di centinaia di persone. A scriverlo è stato il medico prussiano Johan Anmuth, che ha affidato all’inchiostro le parole dei suoi pazienti.
La sensibilità musicale del regista
In una scena del film la protagonista sale su un palco e comincia a cantare. Ma le parole muoiono in gola e lei capisce che per vivere libera di esprimersi dovrà mettere in gioco tutta sé stessa. È la particolare sensibilità per la musica ad aver suggerito all’autore di raccontare in questo modo la presa di coscienza di Eva. Carlo S. Hintermann, che prima di studiare cinema si era diplomato in percussioni classiche, ha affidato la colonna sonora del film al compositore americano Hanan Townshend, autore delle musiche di molti film di Terrence Malick. E a Federico Pascucci, il compositore e jazzista italiano che con Hintermann ha fondato il gruppo Errichetta Underground. Con questa formazione, suonano insieme musica dai ritmi yiddish e balcanici da più di dieci anni. La colonna sonora di The book of vision aderisce all’opera, senza essere mai invasiva. Il regista aveva chiesto a Townshend e Pascucci di sottolineare le due dimensioni del film, quella contemporanea e quella del Settecento. Mediante “un connubio tra suoni di sintesi, elettronici, e il suono concreto dei fiati, registrati in modo che emergesse la componente materica dello strumento”.