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VERO COME LA FINZIONE – Sul perché non esistono storie vere al cinema

Sempre più film al cinema sono ispirati a storie vere. Coincidenza senza significato, semplice dinamica ciclica naturale oppure sta accadendo qualcosa alla “Fabbrica dei Sogni”? Sta cambiando nel profondo quello che le persone cercano in un film?

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strade perdute

Negli ultimi anni è sempre più frequente, sedendosi in una sala cinematografica, vedere apparire sullo schermo prima dell’inizio del film la frase: “tratto da una storia vera“. Di titoli ne vengono in mente tanti, Il Caso Spotlight, The Danish Girl, La Grande Scommessa, Frida, Quasi Amici, Argo, Green Book, Cattive Acque, The Wolf of Wall Street, Dunkirk, solo per citarne alcuni.

In effetti fino a qui nulla di strano, in fondo nella storia del cinema ci sono sempre stati film, anche molto belli, ispirati a fatti realmente accaduti come Gandhi, Chaplin, Schindler’s List.

Del resto l’arte studia la realtà, se ne nutre, la attraversa per poi trasformarla. Ecco, forse è proprio l’ultimo passaggio quello più importante; l’arte, qualunque essa sia, osserva la realtà, la assorbe e poi la rappresenta secondo il proprio linguaggio, in definitiva creandola nel momento in cui la rappresenta. Ogni musicista, scrittore, scultore, danzatore è consapevole di questo e senza dubbio ne sono consapevoli anche registi e sceneggiatori. Quindi se l’arte è per sua natura trasformazione e il cinema è sicuramente arte, perché questa smania degli ultimi tempi di sottolineare il collegamento del film con fatti realmente accaduti? Perché c’è un forte aumento di film prodotti che scaturiscono da una storia vera e perché hanno così tanto successo presso il pubblico?

Non ho delle risposte precise a queste domande, per di più a molti lettori tali questioni potranno apparire come elucubrazioni senza senso, dopo tutto qual è il problema di fare film tratti da storie vere, è una cosa del tutto naturale, perché non dovrebbe essere così? Neanche a queste domande so rispondere quindi se smetteste di leggere l’articolo vi capirei.

Quando non conosco le risposte ad alcune domande inizio a vagabondare tra i miei pensieri e di solito qualche cosa di sensato alla fine ne viene fuori. Speriamo sia così anche questa volta.

Intanto non posso fare a meno di pensare che un genere come l’horror, anche se ha avuto alterne fortune nel corso degli anni e viene spesso considerato un genere da adolescenti, è riconosciuto da molti critici cinematografici come un genere nobile, perché in fondo il cinema nasce con l’horror. Anche la fantascienza e il fantasy hanno dominato per decenni l’immaginario individuale e collettivo degli spettatori guadagnando anche il favore della critica. Da qualche tempo invece si nota una certa tendenza al “verismo”, forse superiore allo standard.

Questo cosa significa, che il pubblico è cambiato? Che addirittura stiamo assistendo a un mutamento antropologico di visione del mondo che quindi ricade anche sul cinema? Che il cinema è cambiato nella sua natura profonda? Forse non siamo più capaci di incantarci come dei bambini, forse siamo cresciuti come pubblico nel corso di un secolo e più di cinema; può anche darsi. Siamo quindi passati dalle favole dell’infanzia alla solida ragionevolezza dell’età adulta; niente sogni (o incubi) ma solide realtà!?!

Chissà! Intanto andiamo avanti e vediamo se a qualcuna di queste domande sarà possibile abbozzare una risposta. Ho l’impressione però che a questo punto sia necessario chiamare in causa il carattere dello spettatore.

Personalmente ad esempio ho sempre avuto una certa propensione per il surreale, per le tante e celate sfumature della psiche, per quello che si nasconde, per ciò che di falso c’è in una storia vera e ciò che di vero c’è in una bugia, per la fragile membrana (pellicola?) che separa la realtà dalla fantasia. Kubrick, Bergman, Antonioni, Lynch, Fellini i miei mentori. Molte persone che conosco invece avrebbero un attacco di panico se vedessero il Satyricon di Fellini oppure Strade Perdute di David Lynch mentre sarebbero in perfetta sintonia con Michael Mann, Billy Wilder, Francesco Rosi, Vittorio De Sica, Roland Joffe’.

Inoltre, anche se non può essere in nessun modo considerata una legge generale, mi sembra di notare che le persone che vanno a vedere Cattive Acque oppure Erin Brochovich in linea di massima non sono le stesse che vanno a vedere gli Avengers e Batman che a loro volta forse non sono le stesse che hanno visto l’Arte del Sogno di Gondry oppure Birdman di Inàrritu. In effetti è un po’ tagliato con l’accetta ma forse c’è un nocciolo di verità.

Ma dove approda questo ragionamento? Ad una banalità, cioè che la porzione di mondo di cui ciascuno di noi è in grado di godere dipende dalla nostra soggettività, dalla nostra storia, dalle nostre predisposizioni e sensibilità insomma dalla nostra personalità. I latini usavano dire “tot capite tot sentenzia”, ma senza fargli torto, seppur in modo grossolano e consapevole del rischio angosciante di richiamare alla mente una puntata di Ciao Darwin, credo sia possibile inquadrare il modo di godere di un’opera d’arte, in particolare cinematografica, all’interno di due macro categorie: i realisti e i sognatori.

I realisti in genere amano vedere film con una struttura solida, con coordinate spazio temporali classiche, dotati di una storia sensata e coerente, cercano la sorpresa nella trama ma non nella modalità di messa in scena e di rappresentazione complessiva dell’opera. Sono attratti dall’approfondimento psicologico dei personaggi ma stranezza e follia devono avere un limite, anche se presenti devono prima o poi ritornare ad una cornice più intellegibile. Si potrebbe rocambolescamente supporre che per lo spettatore realista i riferimenti ad una storia vera possano fornire un qualche tipo di rassicurazione, una specie di porto sicuro che garantisca loro di non finire in mare aperto senza punti di riferimento riconoscibili. Come a dire allo spettatore: “tranquillo stai salendo su una nave che non è governata da un pazzo, ai comandi c’è la realtà. Anche se ci allontaniamo un po’ dalla terra ferma presto ritorneremo”.

Lo spettatore sognatore invece è alla ricerca di immagini visionarie ed enigmatiche che possano squarciare le coordinate della realtà come un apriscatole e mostrarne il magmatico e straniante contenuto. Ha bisogno di essere sorpreso e addirittura sgomentato dalla potenza delle immagini o dalla cruenta frammentazione della trama tanto da assumere uno strato onirico che possa dare l’impressione di entrare in contatto con simbologie arcane e spirituali che indicano abissi all’interno nei quali è pronto a perdersi. Presumibilmente per questo tipo di spettatore l’Io cosciente è una sorta di fragile e sottile crosta che può facilmente spaccarsi sotto la pressione della soggiacente e surreale follia che costituisce l’essere umano nelle fondamenta e al cinema si chiede di essere il tramite di questa epifania.

Ripeto che questa elementare suddivisione ha solo uno scopo didattico e la maggior parte di noi oscilla tra queste due dimensioni.

Ma queste due categorie, sebbene parziali e limitate, rappresentano dei profili naturali della cognizione umana oppure sono indotte dai diversi stili che attraversano l’arte, in questo caso il cinema? E c’è un motivo per il quale il realismo sembrerebbe caratterizzare maggiormente i film degli ultimi anni?

Questo genere di argomentazioni poi conduce a risvolti suggestivi. In qualche modo infatti la situazione che ho appena descritto sembra suggerire la presenza non solo di film belli e film brutti, ma almeno due tipi di cinema geneticamente differenti basati su meccanismi di azione differenti e su differenti motivazioni profonde. Uno concreto e l’altro sognatore, uno tendente alla verità oggettiva e tangibile e l’altro orientato alle imponderabili e inafferrabili sfumature della mente, uno insegue i fatti l’altro insegue le vertiginose acrobazie dell’immaginario.

Chiunque sostenesse che il cinema agisca su due o più meccanismi d’azione a seconda di quante sono le tipologie di essere umano avrebbe certamente a disposizione molti dati a suo favore. A mio avviso però anche se in modi diversi il cinema sollecita e interviene su un ambito preciso della soggettività. Non andiamo al cinema per vedere la realtà perché nella realtà siamo immersi continuamente, andiamo al cinema per provare emozioni, dare corpo a desideri e vivere fantasie, e questo accade sempre con ogni genere di film.

Nessun film è una storia vera o comunque non è per quello che lo vediamo. Ciò che ci spinge a vederlo in fondo è il nostro desiderio di volere che quella storia sia vera, il nostro bisogno di credere che quella storia possa finire in un certo modo, perché noi in ultima analisi chiediamo all’arte di mostrarci i nostri sogni e i nostri incubi e quindi si potrebbe persino dire che ogni film tratto da una storia vera in realtà poggia sul nostro bisogno di venire illusi e che ogni film fantastico e surreale esprime le nostre paure e i nostri desideri inaccettabili e pertanto è vero.

Così come noi non siamo mai né completamente svegli nè completamente addormentati, c’è sempre una parte di noi che in qualche modo sogna, anche quando siamo svegli e crediamo di vivere soltanto nella realtà. Questa parte di noi ha bisogno di conservare i propri sogni in uno scrigno protetto, che gli consenta di andare a riprenderli ogni volta che ne ha bisogno senza vergognarsene. Forse la definizione del cinema come “scatola dei sogni” si riferisce proprio a questo.

Probabilmente quindi non ci troviamo di fronte a un mutamento antropologico dei bisogni profondi del pubblico, anche se la civiltà digitale che riempie ciascuno di noi di molte informazioni ma di poca conoscenza, sta svolgendo sicuramente un ruolo. Guardare un film basato su una storia vera può dare l’impressione di approfondire un fatto e quindi di conoscerlo più da vicino mettendosi al riparo dalle fake news; “Chi ha realizzato il film, avrà sicuramente fatto ricerche”.

A questo si aggiunge un allargamento della platea cioè del pubblico che sceglie di andare al cinema o di vedere film. Forse una volta erano più i sognatori che andavano al cinema adesso invece ci vanno anche i realisti. Questo però non ci costringe comunque a cambiare idea sull’essenza del cinema come scatola dei sogni, ciò che cambia in ogni film è solo il modo di confezionarli.

DAMIANO BIONDI

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