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Lucio Fulci. Personale anabasi di una Trilogia (del terrore)

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Casa di mia madre, in transito appena tornato dalle vacanze, colonna sonora nessuna (visto che non può sopportare la musica alta).

Dunque, mentre sto sulla via del ritorno dalle mie vacanze trovo nella mail un perentorio messaggio del grande capo che mi informa che sono già in ritardo sulla consegna del pezzo.

Ovviamente non manco di sentirmi in colpa.

Devo ammetterlo, il boss deve aver capito quanto l’ultimo pezzo sulle bestie di satana mi sia costato in termini emotivi e ha usato una cortesia inusuale.

Va detto che Taxidrivers è sempre stato un incrocio tra una caserma, un collettivo di artisti e la sala comune di un centro di igiene mentale.

Questa alchimia nel saper mettere insieme cervelli così diversamente inquieti credo sia alla base del suo successo, ma è altresì vero che a chi ha in mano le redini della carrozza spetti il compito di dare un po’ di ordine al Caos creativo, vestendo talvolta i panni del sergente.

Quindi mi ha stupito non poco che, dopo quasi dieci anni, finalmente mi venisse affidato un pezzo su Lucio Fulci.

Carta bianca, o quasi.

In effetti il canovaccio redazionale vorrebbe che io vi parlassi della trilogia del terrore, da qualcuno detta anche “trilogia della morte”.

In realtà visto che a definirla trilogia della morte è Wikipedia, io ignorerò volutamente questa definizione e continuerò a chiamarla “del terrore” come ho sempre fatto.

Certo, molti di voi si aspetterebbero che io vi parli di questi tre capisaldi del cinema fulciano in termini accademici.

Non nego che mi ero documentato a lungo, rivisto i film più e più volte (anche se già li sapevo a memoria), ripreso in mano pezzi della mia vecchia tesi, con l’idea di tirare fuori un piccolo saggio.

Invece a sorpresa all’ultimo momento, con la spada di Damocle della consegna pericolosamente perpendicolare sulla mia testa, ho deciso di cestinare tutto e impostare il pezzo in maniera completamente diversa, più coerente con il mio modo di essere e di sentire.

Già, potrei parlarvi de “L’aldilà, “La paura” (“Nella città dei morti viventi” fu aggiunto in seguito per motivi di marketing) e “La villa accanto al cimitero” in termini esoterici, usando allocuzioni come sguardo diegetico e epistemologia del testo filmico, tirando fuori un bell’articolo che solo gli addetti ai lavori saprebbero apprezzare e che potete trovare in qualunque manuale di cinema appena ben fatto.

Ma a me delle pacche sulle spalle non è mai fregato niente, così come non ho mai sentito il bisogno di scrivere per dimostrare qualcosa a qualcuno.

Anzi, personalmente ho sempre considerato il grado di competitività come l’indice fallimentare di persone che passano la vita a guardare ciò che fanno gli altri, invece di concentrarsi su ciò che hanno già nel loro cuore e usarlo per creare qualcosa che trasmetta emozioni grandiose.

Perché di emozioni si parla qui.

Il Cinema è la magia del racconto e i registi sono i maghi che lavorano “la materia di cui sono fatti i sogni” con il solo scopo di trasmetterci le loro emozioni.

E qui si parla anche di emozioni sul piano personale.

Già, perché vedete… io Fulci ebbi l’immensa fortuna di conoscerlo.

Insieme ad un gruppo di amici frequentai la sua casa nell’ultimo periodo braccianense e infine a Garbatella.

Ero uno di quei ragazzini entusiasti che Romagnoli cita nel suo libro “Lo sguardo del testimone”.

Eravamo giovanissimi ed erano per tutti noi anni di scoperte, ma fortunatamente eravamo coscienti dello straordinario privilegio che ci era toccato in sorte, nel poter conoscere un grande artista che presto sarebbe entrato nella leggenda.

Su questo nessuno aveva il benché minimo dubbio, anche perché per noi Lucio era già una leggenda vivente.

Anzi, a costo di sembrare sciocco, voglio approfittare di queste righe per confidarvi che solo ora che non c’è più riesco a chiamarlo Lucio.

Quando parlavo con lui ero talmente in soggezione (cosa rarissima per me prosopopeico patologico) che non mi riuscì mai di chiamarlo per nome o di dargli del tu.

Mi limitavo a rivolgermi a lui con un cerimoniale “maestro” e questo particolare sono certo che non abbia mai mancato di divertirlo.

Perdonatemi questa digressione personale, ma ho sempre pensato che uno degli aspetti più affascinanti della storia del cinema siano appunto gli aneddoti e questo “dietro le quinte” mi andava davvero di condividerlo con voi.

Anzi so che qualcuno dei vecchi amici che ora mi legge, non potrà fare a meno di ricordare anche lui quei bellissimi pellegrinaggi a casa Fulci con un mare di nostalgia e forse con qualche lacrima.

In più questa spiegazione mi serve per impostare il mio futuro lavoro.

Da tempo sto lavorando agli articoli su “Lo sguardo del testimone” e sul documentario “Fake for Fulci” che i rispettivi autori mi hanno fatto gentilmente pervenire da ormai troppi mesi.

Sono lavori che mi hanno emozionato e non riuscivo a trovare il modo giusto per parlarne.

Una semplice recensione mi sembrava decisamente troppo riduttiva.

Ma l’idea di parlare della “trilogia del terrore” da un punto di vista delle emozioni che quel trittico sa suscitare è l’occasione giusta per impostare tutto il percorso fulciano che avevo in mente nell’unico modo che alla fine ho deciso essere quello giusto… almeno per me.

Tutto quello che su questi film dovreste sapere sul piano tecnico, lo potete trovare in qualunque testo di storia del cinema italiano.

Mi limiterò a sottolineare quelli imprescindibili perché fondamentali alla piena comprensione della poetica fulciana.

Un buon regista è soprattutto colui che sa circondarsi delle persone con le giuste competenze tecniche e la sensibilità adeguata per capire e mettere in atto la visione dell’autore.

In questo caso sono fondamentali nel gruppo di lavoro che Fulci porterà avanti quasi intatto nella trilogia Sergio Salvati alla fotografia e Dardano Sacchetti ad affiancarlo nelle sceneggiature con Giorgio Mariuzzo (quest’ultimo assente per “Paura nella città”) .

Basilare anche l’apporto alle musiche di Fabio Frizzi, anche se ne “La villa accanto al cimitero” verrà sostituito da Walter (Romano) Rizzati.

Ultima, ma non ultima Catriona MacColl, straordinaria musa di tutti e tre i film.

Catriona MacColl

Quello che colpisce al primo impatto nei tre film è senza dubbio l’uso apparentemente anarchico della violenza che come un treno sembra travolgere persone e parole.

Non è un caso che Tarantino (il quale a differenza di tanti “italiani” non fece mancare il suo omaggio al funerale di Fulci), saccheggiò a piene mani questo aspetto, collocandolo però in un contesto ironico diametralmente opposto a quello fulciano.

Infatti la violenza è solo la prima delle molteplici chiavi di lettura della trilogia.

Fulci era certamente una persona complessa e io non ho l’arroganza di poter dire di aver capito tutto quello che voleva esprimere con la sua poetica.

In genere chi lo fa ha capito ben poco e spesso è costretto a continue rettifiche delle sue analisi.

Meglio avere poche idee ma chiare.

In questo contesto, superato lo scoglio grandguignolesco, l’aspetto che più prepotentemente emerge da questi tre film è uno spaventoso, agghiacciante pessimismo.

Fulci gioca, fa il verso ad Hitchcock inserendosi in camei all’interno della narrazione, ironizza sugli scioperi che in un modo o nell’altro vengono sempre tirati in ballo da qualche comprimario, ma sotto questi brevi lampi di ironia troviamo l’agghiacciante freddezza di un vuoto cosmico.

Che sia l’abisso lovecraftiano de “L’aldilà”, la cripta – labirinto in cui vagano le anime in pena di “Paura nella città dei morti viventi” o la cantina in cui il dottor Freudstein attende le sue giovani vittime, ciò che salta agli occhi è l’impossibilità di una redenzione, nemmeno attraverso il dolore espresso nello spaventoso sacrificio di una violenza ostentata al suo limite.

I corpi vengono trapanati, straziati, le carni trasformate.

Ma per gli sventurati protagonisti dell’incubo fulciano non esiste un percorso escatologico che li possa portare se non alla luce, quantomeno alla gioia.

Non c’è la salvezza nell’amore tra un uomo e una donna, non c’è la salvezza nell’innocenza dell’infanzia, non c’è la salvezza nelle certezze della fede.

I protagonisti della trilogia semplicemente non vengono salvati.

Ne “L’aldilà” gli eroi sono costretti a ripercorrere in eterno lo stesso vuoto assoluto dai colori algidi.

Non c’è un paradiso luminoso, ma nemmeno l’inferno con demoni e fiamme.

Gli orrori, il sangue, le creature maligne a metà tra lo zombie romeriano e la larva della tradizione latina si limitano ad inseguire i due protagonisti, a spingerli in un imbuto sempre più stretto alla fine del quale non resta che accettare l’orrenda conclusione che siamo tutti destinati ad una lenta, malinconica consunzione che attraversa i secoli e corrode la morte stessa: “Non è morto ciò che può attendere in eterno, e col volgere di strani eoni anche la morte può morire.” (H. P. Lovecraft).

La stessa disperata tristezza avvolge la città fantasma di Dunwich dove i morti attendono che le porte si aprano per camminare sulla terra.

Anche qui Fulci si diverte a stupire tirando secchiate di vermi addosso agli attori (i celebri dispetti di Lucio il Truce), ci colpisce con un pugno nello stomaco fatto di crani fracassati e aperti a mani nude, ma per lui, comunista e cattolico con molti dubbi per sua stessa ammissione, credo che il vero orrore sia nell’atto contronatura di un prete che commette suicidio, ovvero il peccato che la chiesa ha sempre reputato come il più grave.

Più che i mormorii, i cadaveri putrefatti, le membra strappate e masticate senza pietà, penso che i primissimi piani sugli occhi, vuoti e carichi di stanca pena del prete suicida siano la cosa più terrificante di questo film che giustamente fruttò al regista l’appellativo di “poeta del Macabro” da parte dei celebri Cahiers du cinema, normalmente avidi di complimenti verso i registi italiani.

Cosa c’è di più violento di quella lenta carrellata sulle bare, aperte e vuote, nell’obitorio sostenuta dalla musica calma e solenne di Frizzi?

Quel vuoto, promette allo spettatore orrori ben più pesanti di quello che le spettrali creature ci mostrano direttamente.

La materia, il tempo e lo spazio sono tutte convenzioni assoggettate a questa convinzione e la cripta in cui si dipana il finale diventa un labirintiaco microcosmo dove i vivi incontrano i morti e specchiandosi nel loro sguardo non vedono che se stessi.

Gli spazi ora angusti si dilatano all’inverosimile e i sotterranei si aprono in sale a cui il cielo è negato da vetrate liberty dai colori pesanti.

E l’atto eroico culminante con l’eliminazione del prete sacrilego è tradito dallo sguardo infantile e mostruoso di quel celebre controfinale spietato che William Lustig esalterà nel suo “Uncle Sam”.

Se il rapporto con la fede per Fulci è complicato, quello con l’infanzia e i bambini è addirittura traumatico.

Ricordo di aver sentito durante una conferenza stampa, un giornalista porre a Fulci brutalmente la domanda “ Ma Fulci, lei odia i bambini?”

Quale sia il rapporto tra Fulci e i bambini lo ignoro.

Lo stesso regista si divertiva a confondere le acque dando di continuo risposte ermetiche e contraddittorie su vari temi, tra cui anche questo.

Quello che è certo è che per Fulci non c’è salvezza nemmeno nell’innocenza infantile.

Lo dice chiaramente in “Non si sevizia un paperino”, dove l’innocenza violata o presunta tale diventa la maledizione che uccide i bambini.

Ma per restare nella trilogia, non c’è possibilità di equivoco nemmeno ne “La villa accanto al cimitero”.

Qui dopo la fede, si arriva a travolgere un altro tabù, quello dell’intangibilità dei bambini.

La loro innocenza non è fonte di redenzione, ma nutre l’incubo, l’uomo nero che vive in cantina.

La vita al suo sbocciare che viene usata dal dottor Freudstein per rigenerarsi.

Ma è un’illusione anche questa, perché il sacrificio dell’infanzia non porta ad una reale giovinezza, ma ad un’esistenza nel buio, dove i giorni si perpetuano uno dopo l’altro in un cupio dissolvi.

La mostruosa creatura, che si macchia di orrendi delitti, in fondo non è diversa dal prete di “Paura nella città”.

Parla con voce da bambino e il suo destino non è migliore di quello del piccolo protagonista di questa ennesima fiaba oscura.

Fittizia è la vita dell’assassino, come fittizia è la salvezza della vittima a cui Fulci usa l’estrema gentilezza di un trapasso indolore e pone la sua anima non nel fulgore del paradiso, ma in un dolce limbo, immutabile nella sua fissità tra la condanna e la rassegnazione.

Credo con questo di essere stato esaustivo.

Non su Fulci nel suo insieme.

Ma di essere stato esaustivo nel trasmettere i sentimenti che Fulci è riuscito a sua volta a trasmettere a me e di darvi le giuste chiavi di lettura per i prossimi articoli.

Forse avrò preso qualche cantonata o detto qualche strafalcione.

Ma non più grossi di quelli che dicono normalmente i molti che pontificano in maniera semplice su un genio così complicato.

Come scusante ho quella di essere emotivamente coinvolto.

Lucio, semmai dovesse vedere questo articolo, probabilmente bofonchierà qualche parolaccia, mi manderà a quel paese, ma alla fine sono certo che sorriderà con bonaria e romanesca condiscendenza sul mio entusiasmo.

Colonna sonora, sempre niente.

Domani torno a casa mia e alla musica a tutto volume.