In concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes Roubaix, una luce nell’ombra di Arnaud Desplechin è la conferma di un cinema in grado di rinnovarsi pur rimanendo coerente alla filmografia del suo autore.
Chiamato ad aprire la 10 edizione del Rendez Vouz, il Festival del nuovo cinema Francese Roubaix, una luce nell’ombra è stata l’occasione per parlare del film con uno dei grandi registi del cinema francese nella splendida cornice di Palazzo Farnese, sede dell’Ambasciata di Francia.
“La verità più profonda di un essere umano la si ritrova nella sua infanzia”
Pur in continuità con i film precedenti Roubaix, una luce nell’ombra è un’opera innovativa rispetto al suo modo di fare cinema. Lo è a cominciare dal principio di realtà che ne regola la storia. A differenza di altri lavori Roubaix, una luce nell’ombra è collocato all’interno della cronaca contemporanea e attraverso i suoi protagonisti stabilisce premesse narrative basate sulla situazione economica e sociale della città di cui riporti numeri e dati con una precisione di stampo documentaristico.
Si potrebbe addirittura parlare di un cinema del realismo considerando il determinismo che fa dei personaggi il risultato dell’ambiente in cui vivono. Volevo sapere se è d’accordo su questo perché nel proseguo parleremo della continuità di Roubaix con il resto della tua filmografia.
Si, preferisco iniziare a parlare degli elementi di discontinuità. A differenza de I fantasmi di Ismael che era polarizzato sull’artificio e la finzione ho proposto al mio produttore di fare un film ancorato alla realtà nel quale non fossi io a dovermi immaginare la storia. Mi sono molto ispirato a un film di Alfred Hitchcock, The Wrong Man (Il ladro, ndr) perché il regista inglese, considerato a tutti gli effetti il maestro della finzione, aveva girato un film in cui invece non c’era alcun elemento di fantasia. Per quel lungometraggio Hitchcock si era ispirato a un fatto di cronaca letto sul New Yorker aderendo al massimo alla realtà. Decise infatti di girare a New York, la città in cui si erano svolti i fatti e a me piace pensare che l’abbia fatto sotto un’influenza di tipo rosselliniano. Tu mi parli di realismo e io penso che lui si sia voluto dare pace del fatto che la Bergman se ne fosse andata per mettersi con Rossellini. Ad ogni modo Hitchcock fece una scelta di totale adesione alla reale, senza alcun elemento di finzione.
Se dunque i personaggi sono il riflesso dell’ambiente in cui vivono non è sbagliato dire che Roubaix, una luce nell’ombra è un film su questa città oltre che su un campione dei suoi abitanti
Si, certo. In questo senso la prima metà del film mostra una realtà molto più ampia nel senso che si focalizza su tutta la città in senso lato: si comincia con il personaggio che si reca al commissariato per denunciare l’incendio della propria macchina – cosa che poi si rivela non vera – e si continua con la ragazzina violentata nella metropolitana e così via, per cui è più uno spaccato del commissariato e della città di Roubaix. Al contrario, nella seconda metà da questa visione più grande si arriva a una prospettiva microscopica. Anche in termini di inquadrature nelle quali a prevalere sono i luoghi stretti e i primi piani, in particolare quelli di Claude (Lea Seydoux, ndr) e Marie (Sara Forestier, ndr), le donne sospettate di aver ucciso la loro vicina di casa. Passando dall’universale al particolare, dal grande al piccolo, il film diventa in qualche modo infinito perché una volta scoperti questi personaggi veniamo a conoscenza della loro anima e della loro umanità.
Venendo alla continuità di Roubaix, una luce nell’ombra con il complesso della sua opera questa la si rileva in maniera meno scoperta di altre volte. Voglio dire che anche qui usa alcuni stilemi tipici del suo cinema ma lo fa in maniera meno evidente. Mi riferisco per esempio all’utilizzo del flashback e alla particolarità in cui viene messo in scena. Invece di mostrare le immagini del delitto ne evoca le dinamiche attraverso la ricostruzione giudiziaria del commissario che obbliga Claude e Marie a mostrargli cosa è accaduto la notte dell’omicidio. In questo modo è ancora una volta il presente il tempo del film, quello che permette allo spettatore e ai protagonisti di venire a capo della verità.
Sono d’accordo con te. Non solo c’è questo flashback ma anche la sua messa in scena teatrale, con il personaggio di Sara Forestier, Marie, in primo piano, che sta raccontando e dunque mettendo in scena quello che gli è successo. Ci sono i poliziotti che fanno da spettatori, le luci che illuminano la scena e c’è il personaggio di Lea Seydoux, Claude, la quale appare più combattuta e affaticata, decisa a rimanere nel backstage, nascosta dietro le quinte fino a quando, nel finale, non decide di far parte della recita. Attraverso questa messa in scena teatrale la verità finisce per venire fuori.
La messa in scena dell’interrogatorio attraverso la ricostruzione teatrale mi è sembrata anche una riflessione sul cinema. A un certo punto al commissario Daoud viene chiesto qual è la maniera in cui capisce se le persone mentono o dicono la verità e lui risponde che basta mettersi nella parte dei suoi interlocutori che poi è anche il compito del cineasta. Il fatto che nella realtà sia il commissario a dirigere la scena e dunque ad aiutare le donne a mimare le loro azioni e che lui come te sia nato a Roubaix è indicativo non solo di un ragionamento sul cinema ma anche di un’ identificazione tra te e il tuo protagonista.
Si, quella con Daoud è una doppia relazione. Se devo dire un po’ ambigua perché da una parte io lo vedo un po’ come un prete o uno psicanalista e chiaramente anche come uno sbirro; non è un giudice per cui lui non esprime giudizi ma fa il suo lavoro per cui è vero che da una parte mi identifico con lui. D’altra non riesco e farlo fino in fondo e forse me lo impedisco perché voglio che resti un eroe mentre io ho tendo a identificarmi con personaggi più maldestri come lo è nel film il novellino appena arrivato, imbarcato e confusionario nella conduzione delle indagini.
Oltre a empatizzare con i loro interlocutori i poliziotti sono simili ad essi anche nei vari aspetti del quotidiano. Non a caso ce li mostri nelle situazioni più amene, quando si fanno la barba, mentre danno da bere al gatto o quando pregano o scommettono sui cavalli. A questo proposito tornando alla messa in scena del flash back ti propongo una riflessione. Rinunciando alla classica rievocazione dell’assassinio ma ricostruendolo attraverso la memoria e la simulazione della azioni compiute dalle sospettate è come se preservassi Marie e Claude dalla spettacolarità e dal vojeurismo assegnati dal cinema a personaggi con tale status. Il loro ruolo è nei fatti tutt’altro che eroico o affascinante. Questo perché al film interessa di più privilegiare i sentimenti e l’umanità dei personaggi piuttosto che rispettare i meccanismi e gli stilemi tipici del thriller e della Crime Story.
Si. A tal proposito mi sento molto vicino a Claude Lanzmann e in particolare al suo film, Le quattro sorelle, che per me è un capolavoro assoluto. Poco prima di iniziare a girare parlai con lui dicendogli che volevo fare un film in cui non ci sarebbe stato alcun elemento di finzione. Lui mi rispose dicendo che questo e quello che bisogna sempre fare. Lanzmann ha operato sempre in quella direzione e da parte mia ho la sensazione di aver imparato una lezione di cinema, per così dire. Ho capito che l’atto è ancora più potente quando viene rimesso in scena. Nello specifico mi viene in mente la sequenza de Il parrucchiere di Abraham Bomba nella quale in questo negozio di Tel Aviv fa raccontare al protagonista il modo di tagliare i capelli ad Auschwitz.
Seppur in maniera nascosta Roubaix, una luce nell’ombra si ricollega ai lavori del passato e alla maniera di mettere in scena le storie. Mi riferisco ai passaggi in cui il film cambia genere e toni. La seconda parte del film, quella in cui a essere protagonista sono Claude e Marie si potrebbe definire procedurale, basata quasi scientificamente sull’interrogatorio delle due donne. Altre volte, soprattutto nella prima, Roubaix, una luce nell’ombra diventa racconto intimo e diario personale in cui la luce tenue, il buio, l’accompagnamento musicale che non è quello dell’azione ma del sentimento sottolineano uno stato dell’anima più che della realtà. Basterebbe citare la scena in cui Marie si trova sulla macchina della polizia che la conduce al commissariato. Il sottofondo musicale, l’utilizzo del chromaque e lo stupore della ragazza verso il mondo circostante trasformano quel passaggio in un’opera di fantasia.
Quanto dici è assolutamente vero. In Roubaix c’è un cambiamento di genere perché questa è un’opera che cambia molto. In definitiva si tratta di un lavoro diviso in due parti. Ne ho fatte molti così, però quì lo scarto si sente ancora di più proprio perché queste due donne sono sospettate di aver compiuto qualcosa di disumano come lo è il sospetto si aver soffocato una persona anziana. Nondimeno il commissario le capisce perché è come loro. In un certo senso è lui a riportarle alla realtà, alla loro umanità. Jean Douchet ha aggiunto che Daoud riesce a fare di queste due donne una coppia. Prima non riescono ad amarsi e in qualche modo si evitano, si schivano, sono diffidenti l’una verso l’altra, poi, nell’ultima scena, quella sul camion, finalmente stanno insieme.
Prendendo in considerazione il personaggio del Commissario Daoud e la splendida interpretazione di Roschdy Zem volevo chiederti qualche cosa in più sul tuo lavoro con gli attori. Ogni volta la qualità delle loro performance risulta il valore aggiunto del film.
C’è da dire che ogni attore è diverso e dunque va diretto in modo differente. Roshdy è un uomo molto impressionante anche se in realtà è mite, affabile e gentile. Non è colpa sua se la mole lo fa sembrare spaventoso. Detto questo io ho sempre la tendenza a recitare davanti agli attori, cosa che anche i testi del cinema sconsigliano. A me viene istintivo ridicolizzarmi anche un pò davanti a loro per indicargli quello che voglio. Questa volta ho pensato fosse giunto il momento di non farlo per cui così è stato. Invece al Festival di Cannes, subito dopo la presentazione del film, Roshdi ha risposto alle domande dei giornalisti affermando che lavorare con me è stato semplice perché non ha fatto altro che imitarmi mentre recitavo davanti a lui. Da li ho capito che a mia insaputa, pur credendo di non farlo, mi ero reso ridicolo nella maniera con cui di solito faccio nella direzione degli attori.
Tra i molti temi del film ce ne sono due di cui vorrei mi parlasse. Roubaix, una luce nell’ombra è un film molto vicino a quanto diceva Louis Ferdinand Celine in Viaggio al termine della notte. Nel romanzo come nel film la povertà non è motivo di solidarietà tra gli uomini ma elemento di conflitto e di rapacità. Ad esso unisce il concetto di giovinezza come età di sogni destinati a essere disillusi.
Per quanto riguarda Celine in quanto francese fatico un po’ a immedesimarmi con lui. In realtà mentre stavo a Parigi il lavoro di documentazione rispetto al contesto della storia lo hanno fatto gli altri. Sono stati loro a inviarmi il materiale sui vari personaggi, sulle condizioni di vita a Roubaix e nei commissariati e così via. Però quello che ho fatto è stato rileggere per ben due volte Delitto e Castigo perché essendo francese mi risultava più facile appoggiarmi in qualche modo a Dostojevskij. Lui dice che la verità profonda di un essere umano la si ritrova nella sua infanzia quindi il segreto degli esseri umani sta nell’infanzia. Nel film ne vediamo molte: c’è quella di Daoud raccontata nei ricordi della scuola, c’è quella del poliziotto più giovane, ci sono soprattutto quelle di Claude e Marie. Penso soprattuto alle due scene in cui Daoud le va a trovare. Al personaggio di Lea in particolare dice che da giovane era bellissima mentre adesso la sua infanzia è sfiorita e lui e lei sono diventati uguali. Così è la vita, almeno nella storia che ho raccontando nel film.