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Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Intervista a Aurelio Grimaldi regista de Il delitto Mattarella
Aurelio Grimaldi racconta un’altra pagina drammatica della storia d’Italia raccontando la figura morale, politica ed esistenziale di Piersanti Mattarella
Published
4 anni agoon
Dopo Nerolio Aurelio Grimaldi racconta con Il Delitto Mattarella un’altra pagina controversa e drammatica della storia d’Italia raccontando senza retorica e attraverso i fatti la figura morale, politica ed esistenziale di Piersanti Mattarella, martire come altri della collusione tra mafia e politica. Di seguito l’intervista al regista, il trailer e la recensione del film Il Delitto Mattarella.
Intervista a Aurelio Grimaldi
La scena iniziale de Il delitto Mattarella alterna immagini di una mondanità festaiola ad altre rappresentative di una realtà occulta come quella che fa capo ai legami tra mafia e politica. Volevo chiederti se questo tipo di montaggio è stato fatto per suggerire la presenza di una doppia realtà.
La tua è una domanda complessa a cui cercherò di rispondere al meglio. Io sono siciliano ma dai due ai venti anni ho vissuto in Lombardia. Per seguire i mie genitori, sono tornato in quei luoghi proprio ai tempi del delitto Mattarella. Venendo dal nord ero pieno di pregiudizi e per questo non vedevo l’ora di tornare da dove ero venuto. Come spesso capita a farmi cambiare idea furono ragioni di tipo sentimentale. Trasferendomi a Palermo ho scoperto una realtà non doppia ma tripla se non quadrupla. Erano gli anni seguenti all’omicidio del politico democristiano, quelli dell’avvenuta restaurazione, con gli uomini di Andreotti, di Fanfani e di Lima collusi con la malavita organizzata e sicuri di farla franca di fronte alle accuse dei loro oppositori.
Si trattava di una maggioranza schiacciante, all’interno della quale Lima era capace di presentarsi alle europee ottenendo 600 mila voti. A votarli in massa era la borghesia palermitana mentre quella di sinistra, in netta minoranza, gli si opponeva. Accanto a questi, sconosciuta, esisteva anche un’altra Palermo, quella del cosiddetto proletariato con cui entrai in contatto quando vinsi il bando per fare l’insegnate al carcere minorile Malaspina. A loro si rivolgevano i centristi collusi per raccogliere i voti. Nel film tutto questo era difficile da raccontare. Tu hai colto delle sfumature che spero siano percepite anche dagli altri spettatori. La vigila del 6 gennaio è l’ultima in cui borghesia e popolo si ritrovano la sera per partecipare ai giochi natalizi. Io ho potuto solo accennarlo perché la scena della festa era troppo lunga e l’ho dovuta tagliare. Di sicuro c’erano due borghesie. Quella delle famiglie alla Mattarella che alla mondanità preferivano la cerchia delle proprie amicizie e le altre, abituate a un diverso stile di vita. Tu hai colto questa sfumatura ma al di là di tutto è importante dire che la DC di allora era divisa tra Mattarella e il trio Gioa, Ciancimino e Lima.
Per struttura narrativa e tipologia di immagini Il delitto Mattarella è allo stesso tempo cronaca dei fatti e racconto intimo e personale. Una costruzione che si mantiene coerente per tutto il film.
Ti ringrazio per questa osservazione perché hai colto tante sfumature che in parte spero possano essere recepite anche dal pubblico. La sceneggiatura del film è stata oggetto di molteplici revisioni. In essa, attraverso poche scene, racconto la vita privata di tre soli politici e cioè di Pier Santi, di Giovanni Gioa, malato di tumore e destinato a morire mesi dopo e infine di Rosario Nicoletti, il quale restò sempre in una collocazione mediana rispetto a Mattarella e alla triade politica di cui abbiamo detto. Peraltro fu accusato da alcuni pentiti di essere colluso e si suicidò nel 1984. Per quanto riguarda i fatti, la maggior parte delle notizie su Lima e Ciancimino le abbiamo apprese dai documenti storici prodotti dai giudici. Da quelli abbiamo appreso un sacco di dettagli che solo chi si è occupato dei loro casi aveva la possibilità di sapere. Per evitare gli schematismi della fiction televisiva che divide sempre tra buoni e cattivi ho raccontato un democristiano di certo colluso come Giovanni Gioa, e un altro molto discusso quale fu Rosario Nicoletti, al quale va la mia pietà umana per questo gesto che non ha riscontri nella politica italiana. Delle persone in questione cerco di raccontare anche la loro umanità: l’arroganza di Gioa quando c’è da fare la spartizione dei posti la faccio vedere nella stanza d’ospedale dove lo stesso è ricoverato per un tumore all’ultimo stadio. Mostro Giulio Andreotti che gli porta un regalo, mentre attraverso le sfumature interpretative di Leo Gullotta provo a descrivere il tormento interiore di Nicoletti.
All’inizio del film fai una citazione tratta da San Paolo in cui si evoca la lotta tra bene e male. In questo senso è come se il film volesse incarnare il senso ultimo dell’azione di Mattarella, perchè la frase corrisponde per filo e per segno all’azione politica e al pensiero del protagonista.
Delle due citazioni iniziali la seconda è quella scelta per la lapide che ricorda Piersanti quindi è il riflesso stesso di un sentimento famigliare appartenente a chi più degli altri gli ha voluto bene. Ti ripeto, io ho paura della morfologia della fiaba, e cioè del fatto che buoni cattivi lo siano sempre al cento per cento. E’ un assunto che non mi convince, tipico di una tradizione cinematografica da me poco amata. Il mio è un film militante, anche didascalico. A un certo punto sono stato costretto a mettere le voci fuori campo. Il montaggio invece è durato molto più a lungo del previsto, perché quando facevo le proiezioni di controllo con gli amici più stretti i troppi fatti provocavano una grande confusione; soprattutto per quanto riguarda la questione sulla Banda della Magliana, e sulla pista neofascista. Su quei punti anche le gente più informata sui fatti si perdeva. Dunque Il delitto Mattarella è un film che ammette e riconosce di aver dato priorità alla funzione della memoria rispetto a una analisi puramente estetica e a una struttura narrativa più distaccata. A un certo punto ho preso la decisione che avevo messo in conto all’inizio, escludendo l’uso di una cronologia tradizionale, quella che prevede di far morire subito il personaggio per poi tornare indietro e ricominciare dall’inizio. Mi sarebbe sembrato una soluzione da fiction mentre a me interessava enfatizzare il contrasto tra presente e passato. L’omicidio di Piersanti Mattarella non è come quelli di Falcone e Borsellino, di Cesare Terranova e Pio La Torre, di cui conosciamo con certezza che furono uccisi su mandato dei capi di Cosa Nostra. Nel caso di Mattarella sappiamo esserci stati una serie di vettori – non tutti direttamente collegati – in cui molteplici interessi convergono contro di lui.
Guardando il tuo film mi è venuta in mente una considerazione e cioè che rispetto a personaggi tanto malvagi la Sicilia è anche la terra di uomini animati da un altissimo senso di giustizia. In Sicilia nascono Reina e Bontade ma anche Mattarella, Falcone Borsellino e molti altri. Martiri capaci di lasciare ai posteri un esempio indelebile della loro operato.
Ai tempi del governo Berlusconi Bossi era ministro per le riforme istituzionali e nonostante avesse giurato sulla costituzione inneggiava alla secessione. Quando diceva che i terroni non avevano voglia di fare nulla replicavo con disappunto e sdegno, ricordando che la Sicilia aveva dato i natali a Reina, Bontade e Ciancimino, ma anche a magistrati, giudici, politici e giornalisti che senza la collaborazione dello stato si erano battuti per un idea di giustizia, di democrazia e di libertà. Come diceva Bertold Brecht, dovremmo essere una comunità che non ha bisogno di eroi. Allo stesso tempo come persona, regista e scrittore non credo alla tradizione cattolica per cui gli infami devono andare all’inferno. Alla fine del primo giorno di servizio al carcere Malaspina con i miei amici palermitani discutemmo fino a litigare perché sostenni che mi sarebbe piaciuto essere l’insegnante di Reina, partendo dal fatto che escludo l’esistenza di soggetti irrecuperabili. Al contrario sono intollerante nei confronti di uno stato per troppi anni colluso con i mafiosi e con poteri alternativi. Il film ne prende atto mostrando come un politico presidente del consiglio per ben 7 volte e primo ministro per altre 27 e ancora, come un futuro ministro e presidente del consiglio come Silvio Berlusconi, recordman per presenze a palazzo Chigi, abbiano incontrato i boss della mafia, consapevoli che fossero dei latitanti, ricercati da tutte le autorità pubbliche dello stato. Questo secondo me è imperdonabile, non ciò che hanno commesso Reina e Bontade. Spero che il film assolva il compito della memoria perché lo Stato non può regredire a livelli del genere. Molti mi chiederanno come mai alla fine abbiamo messo Berlusconi e Dell’Utri. In apparenza non c’entrano nulla con la storia di Piersanti ma mi sembrava giusto mostrare l’incontro tra un futuro presidente del consiglio e uno dei più famigerati latitanti, ovvero Stefano Bontade. Si tratta di una questione su cui la comunità italiana deve riflettere.
Come allievo di Moro, Piersanti Mattarella fu fautore del cosiddetto compromesso storico dal quale potrebbe essere partito uno di quei vettori poi risultati fatali per le sorti della sua vita. Si tratta di un aspetto che ha complicato non poco l’individuazione dei colpevoli. D’altro canto sappiamo che la moglie di Mattarella guardò in faccia gli assassini del marito e ciò nonostante questi ultimi non furono riconosciuti dalla legge come tali.
I tribunali non si accontentarono di questa e di altre prove. Io ne ho lette almeno 27 di quelle raccolte dalle richieste dei giudici istruttori. Ii garantismo della legge italiana dichiarò l’insufficienza di prove mentre a me e alla famiglia dell’ucciso torna ancora in mente la richiesta del pm Agueci, il quale, sia in Appello che in Cassazione si vide respingere la condanna nei confronti di Fioravanti e Cavallini. Nonostante questo, noi rimaniamo delle nostra idea: dal punto di vista giuridico costoro sono e rimangono innocenti e quindi assolti per sempre. Questo, nonostante Fioravanti abbia ammesso di essere stato in Sicilia nei giorni dell’omicidio. Come hai notato, dal punto di vista cinematografico io uso i nomi storici per i personaggi oggetto di sentenze definitive mentre per tutti gli altri no. Per onestà intellettuale ho cambiato i nomi dei presunti colpevoli poi assolti perché a quel punto per me diventano personaggi attraverso i quali cerco di argomentare fatti dimostrati, come per esempio la presenza di Cavallini e Fioravanti a Palermo.È’ stata un’ operazione complicata. Non so se qualcuno ci farà causa, però credo nel cinema che racconta fatti. Il mio è tutto costruito su questi, e alcuni di essi hanno una doppia versione. La Procura ti dice che sono stati sicuramente loro due mentre il Tribunale basandosi sulle prove portanti afferma che non ci sono evidenze sufficienti per dirlo. Assolverli dunque non vuol dire che non sono stati loro ma solo che non esistono prove sufficienti per dimostrarlo.
La convergenza tra la matrice mafiosa e quella destrorsa legata alla banda della Magliana non può essere nata dall’avversione delle parti nei confronti del compromesso storico?
Negli atti del processo c’è un intero capitolo, parliamo di centinaia di pagine scritte da magistrati del calibro di Giovanni Falcone. Costoro valutano la questione facendola risalire a uno scambio di interessi legati all’evasione del terrorista neofascista Pier Luigi Concutelli in cui entra in gioco in veste di organizzatore Francesco Mangiameli, capofila dei neofascisti palermitani poi ucciso dallo stesso Fioravanti. Costui ammise l’omicidio ma lo giustificò come un regolamento di conti, resosi necessario dopo che Mangiameli si intascò i soldi di quell’accordo. Il capitolo su Gladio e i suoi collegamenti con P2 è enorme e comprende anche le relazioni con elementi dell’estrema destra tra cui la banda della Magliana. E’ una sezione enorme, costituita da ben 300 pagine in cui Falcone e colleghi dicono di aver raccolto una valanga di elementi. Lui e gli altri scrivono di non avere trovato prove concrete in merito ai collegamenti con l’omicidio Mattarella. Nel senso che noi sappiamo di come Gladio fu pagata dalla Cia per evitare che i comunisti entrassero nei governi delle istituzioni italiane. Dunque siamo consapevoli che questa organizzazione si occupò di Mattarella e poi, a livello nazionale, di Moro. A fronte di questo non esistono evidenze in grado di legare la malavita e Gladio al caso Mattarella. I pentiti della mafia su questo non sanno un bel niente. Buscetta non pensava a un omicidio organizzato al di fuori della Cupola ed è stato creduto dai tribunali. Da parte sua il PM Leonardo Agueci smontò decisamente questa ipotesi affermando che Buscetta non poteva conoscere tutto essendo stato molto tempo in Brasile. Tornando a Gladio e alla P2 e a tutti i cosiddetti poteri occulti, ho raccontato alcuni fatti perché lo spettatore si faccia un quadro.
Dal punto di vista logico e al di là delle prove giudiziarie anche io penso che Gladio si sia interessata a Mattarella. Con lui la Sicilia è la prima istituzione in cui si realizza il patto organico, ancora prima del governo nazionale di Andreotti e della DC, dunque faccio fatica a pensare che Gladio sia restata con le mani in mano. Poi chissà cosa avrà fatto? Sappiamo però che Mattarella muore alcuni mesi dopo.
Rispetto al personaggio di Mattarella compi delle scelte che vanno in direzione di quell’anti retorica di cui mi parlavi. Dal punto di vista narrativo eviti di farne il solo protagonista, lasciando molto spazio al mondo circostante mentre sul piano delle immagini non lo riprendi quasi mai in primissimo piano, allontanadolo dallo spettatore. Mattarella è l’anima del film ma tu concedi molto anche agli altri personaggi.
Avevo veramente il terrore di fare il santino televisivo anche perché trovare dei difetti pubblici a questo “signore” era impossibile. Fuori dal lavoro Mattarella stava in famiglia, non frequentava feste, andava a messa tutte le settimane senza portarsi la scorta perché la domenica voleva lasciare agli agenti la possibilità di stare con i propri figli. Insomma, era una persona umanamente coinvolgente, quindi il rischio dell’agiografia c’era. Non credendo io ai santi ne agli eroi, ma semplicemente agli esseri umani di buona volontà.
Tra le le tante scene famigliari che avevo scritto e pensato alla fine ne ho realizzate tre: quella con il figlio che Mattarella ritrova tornando a casa e al quale parla con piccole frasi, sintesi di una comunicazione amorosa un po’ complicata. C’è poi quella con la figlia nell’occasione del suo diciottesimo compleanno in cui rispettando la ricostruzione dei fatti mostro un Piersanti preoccupato – non per niente venti gg dopo verrà ucciso – ma pronto a esaudire la richiesta della ragazza che gli dice di smettere di lavorare e di raggiungere il resto degli invitati. Infine l’ultima, in cui Piersanti afferma la sua felicità con la moglie a dirgli di non parlarne perché porta sfortuna. In realtà si tratta di un’affermazione della signora Mattarella fatta nel corso dell’unico documentario su suo marito a cui ha accettato di partecipare. Per evitare il flash back televisivo mi sono inventato la sequenza in cui lei ne parla con il prete. In queste tre scene ho cercato di evitare il santino e di raccontare i rapporti con i figli senza santificazioni e senza rappresentazioni da Mulino bianco, quelle in cui tutti sono sorridenti e allegri. Anche la moglie interviene per esprimere il suo senso di colpa, dunque anche in quel caso il tono si mantiene sullo stesso livello.
Nella sua carriera cinematografica David Coco ha interpretato Pio La Torre, poi è stato protagonista di Segreti di stato per la regia di Paolo Benvenuti. Qui resta all’interno dello stesso tema incarnando la figura di Mattarella. Nel farlo da vita a una recitazione asciuttissima. E’ uno di quegli attori che amerei vedere di più sullo schermo.
Come hai detto tu David riesce istintivamente a essere antistorico. Lui ha fatto un sacco di fiction televisive che non ho visto però anche a teatro ha lo stesso approccio utilizzato nel cinema. Con lui ci siamo trovati all’unisono nel raccontare questo personaggio come un essere umano ma senza forzare entusiasmi o accentuarne le qualità. Mi ricordo di aver lavorato con David quando era ancora molto giovane: aveva una piccolissima parte in Un mondo d’amore e per me è stato un grande piacere riaverlo con me per un progetto più grosso.
Di Nerolio, sappiamo il successo riscosso all’estero e delle difficoltà distributive avute in Italia. Sono altresì sorpreso che un film come Il delitto Mattarella sia del tutto indipendente. Mi sarei aspettato il supporto di una grande produzione come la Rai.
La contattammo. Ci dissero che si trattava di un progetto molto interessante ma che essendoci all’interno un personaggio corrispondente all’attuale presidente della Repubblica ci sarebbe stato bisogno di un parere formale da parte di quest’ultimo. Una cosa che Sergio Mattarella non farebbe mai tanto è rispettoso della costituzione e del conflitto di interessi che tale atto prefigurerebbe. Ingenuamente pensavo che parlando del fratello del presidente della Repubblica il film fosse avvantaggiato; immaginavo pure che il valore civile di Piersanti avesse trovato strade aperte e invece no! D’altronde la sceneggiatura risultò più ostica e attuale di quanto ci si potesse aspettare. Specialmente oggi in cui i partiti non disdegnano di accaparrarsi il voto di gruppi neofascisti sempre più in voga. Anche i possibili investitori esterni si sono intimoriti perché i loro uffici legali avevano paura che il mancato consenso del Presidente della repubblica poteva pesare sugli esiti del film. Ne sono nate difficoltà e come al solito sono stato costretto a lavorare con finanziamenti limitati. Per contro gli attori hanno accettato una paga proporzionata alle nostre possibilità.
Tu sei un regista eclettico. A partire da Mery per sempre e quindi da un cinema impegnato e discusso hai attraversato con disinvoltura i generi più disparati: da dove viene questa versatilità?
Ho la sensazione che gira e rigira racconto storie che hanno tutte qualcosa in comune perché per me il film su Piersanti appartiene allo stesso filone del mio esordio e cioè La discesa di Aclà a Foristella, anche quello incentrato su un bambino che si ribella involontariamente a uno stato di cose, scappando via dalla miniera in cui la famiglia lo costringe a lavorare. Il secondo lungometraggio si chiamava La ribelle con la giovane Penelope Cruz che si oppone alle istituzioni partendo da una situazione sociale molto difficile. In Iris, il mio unico film con lieto fine parlo di una bambina decisa a mettere a soqquadro l’isola di Ustica per fare un regalo a sua madre, ritrovandosi a lottare con gli adulti che cercano di impedirglielo. Alla fin fine la stessa Donna Lupo è il ritratto di una donna ribelle, che non accetta i ruoli maschio femmina e che a sua volta non vuole subire sessualmente il maschio.
Anche il maestro di Mery per sempre è uno che a tutti i costi vuole insegnare in una situazione di mancata libertà perché gli sembra un ingiustizia sociale essersi laureato senza problemi mentre i suoi coetanei non hanno avuto la la possibilità di farlo. Scoprendo che il regolamento carcerario ne quello costituzionale sono rispettati diventa una scheggia imbizzarrita e quindi ribelle. La ribellione, l’opposizione allo stato delle cose o la sconfitta – perché molti dei miei protagonisti lo sono – rappresentano per me delle costanti. Sono interessato a un cinema disturbante e per questo il lieto fine mi spaventa un po’. Uno come me, i cui maestri sono Pasolini, Verga e Rosi non può amarlo.
Però quando si tratta di mettere sullo schermo questi temi lo fai utilizzando generi molto diversi.
Martin Scorsese in maniera sincera ci dice che le risorse a disposizione sono molto importanti nel decidere la libertà di un regista e lui in effetti ammette di esserlo stato meno di me se è vero che io sono riuscito a trovare i soldi necessari, magari pochi ma tali da consentirmi di fare come volevo. La mia mentalità galileiana e leibniziana mi fa adattare lo stile del racconto ai giorni di riprese che ho a disposizione per cui mi dico che su una certa scena farò un sacrificio, su una mi darò più tempo ma su altre dovrò correre, facendo a meno di certe inquadrature a favore di uno stile più basico. Questa è la differenza tra essere regista o scrittore. Quest’ultimo può anche scrivere un libro di ottocento pagine o di 25 e nulla cambia mentre nel cinema il tempo e quindi i soldi a tua disposizione influenzano la scelta dello stile.
Se mi dici il cinema che ti ha ispirato e poi quello che oggi ti piace di più?
Ho cominciato a fare cinema quando c’era solo la pellicola, quando c‘era solo la sala cinematografica e non esisteva il vis, quindi i film della storia del cinema li ho visti molto tardi. Per forza di cose la mia formazione è stata casuale perché dipendeva dai film che riuscivo a beccare. Li guardavo alla televisione fino a quando, diventato insegnante, mi sono potuto permettere di andare a Parigi per vedere i film più antichi. Non ho avuto il metodo che oggi può avere un giovane appassionato di cinema, ciò detto le mie preferenze vanno al cinema realistico perché letterariamente il mio maestro assoluto è stato Giovanni Verga. Da giovane Vittorio De Sica è stato un regista importantissimo ma anche Miracolo a Milano fu una cosa fortissima. Francesco Rosi lo è stato progressivamente perché la prima volta che vidi Salvatore Giuliano mi mise in difficoltà, non avendo mai visto un film così documentaristico. Uscii dalla sala confuso e poi ogni volta che lo rivedevo mi stupivo della grandezza di quel film. Poi amo il Pasolini realistico di Accattone e Mamma Roma, opere che mi hanno influenzato così tanto da replicarle in qualche modo in Rosa Funseca. Poi per la mia generazione è stato fondamentale Ingmar Bergman: i suoi film me li sono visti e stravisti in tutte le fasi della mia vita e non smetterò mai di farlo.
Al presente ti posso dire che non vedo quasi nessun film hollywoodiano per mio pregiudizio nei confronti di questi prodotti – peggio per me! -. Di fronte ai film di Christopher Nolan rimango molto freddo. A livello italiano credo che Paolo Sorrentino sia un grande artista; magari i suoi film sono sempre un pochino imperfetti cosa che succedeva anche a Pasolini, ma comunque lo considero di una creatività straripante. Sono legato a Nanni Moretti anche se dei suoi film i miei periti sono lontani nel tempo e cioè La messa è finita e Bianca, senza dimenticare Matteo Garrone. Come tutti mi sforzo di vedere almeno un film al giorno. Ieri è toccato a Non per soldi ma per denaro di Billy Wilder che considero un grande maestro anche nel ritmo e nel montaggio così come nella direzione degli attori. Sono uno che tende a rivedere i classici più che i film contemporanei
Tornando agli inizi. Per te tutto è partito dalla scrittura. Le tue prime opere sono una serie di romanzi.
Ero un adolescente che aveva due grandi passioni dichiarate: la letteratura e il cinema. Di libri ne potevo leggere quanti ne volevo, i film no. Solo i miei amici più stretti sapevano che già allora scrivevo il mio primo romanzo e sognavo anche di diventare regista. A loro confessavo che mi sembrava improbabile diventare scrittore e impossibile diventare regista. La svolta fu il fatto di andare a insegnare al carcere minorile di Malaspina da dove, per molte ragioni di cui si parlò sui giornali locali, mi cacciarono. Appena una casa editrice La luna mi chiese di scrivere un libro su quella esperienza io, nonostante la giovane età – avevo appena 24 anni – mi ritrovai mentalmente pronto. Ero come un atleta che essendosi allenato per un anno non vede l’ora di scattare al colpo di pistola. Io avevo scritto da sempre con la speranza che mi capitasse l’occasione. Cosa poi avvenuta con la scrittura di quel libro.