Film da Vedere

Il Casanova di Federico Fellini, con Donald Sutherland

Fellini: “Kubrick ha dilatato il Settecento in inquadrature vastissime, io invece ho fatto l’operazione inversa: l’ho compresso in ambienti piccoli”. Il Casanova è un’opera lugubre e cadaverica, magicamente sospesa tra follia, genialità e malinconici lampi di poesia. L’ultimo vero capolavoro del regista riminese

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Il Casanova di Federico Fellini è un film del 1976 diretto da Federico Fellini con Donald Sutherland, vincitore dell’Oscar ai migliori costumi. Il film è stato totalmente girato all’interno del teatro di posa numero 5 di Cinecittà, in cui furono ricreate l’atmosfera e le luci del XVIII secolo. Un’operazione opposta a quella fatta nel coevo Barry Lyndon di Stanley Kubrick, che invece fu girato totalmente in esterno. Fellini dichiarò: “Kubrick ha dilatato il Settecento in inquadrature vastissime, io invece ho fatto l’operazione inversa: l’ho compresso in ambienti piccoli“. L’accurata fattura dei costumi dell’epoca, sontuosi e realisti, valsero il Premio Oscar nel 1977 a Danilo Donati. Il film si basa su Histoire de ma vie del Casanova. Molti passaggi sono riportati tali e quali dai racconti autobiografici del Casanova, e il film ne rispetta lo spirito e i dati storici. Ce ne dà la conferma il personaggio di Casanova, per il quale Fellini, dopo una lunga ricerca, scelse Donald Sutherland. Infatti, il viso dell’attore è stato rifatto per intero, per farlo assomigliare il più possibile al famoso ritratto del vero Casanova, un disegno del suo profilo fatto a matita, eseguito dal fratello Francesco, che rimane sicuramente il ritratto più attendibile di Giacomo. Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Cicely Browne, Leda Lojodice, Carmen Scarpitta.

Trama
Vecchio e malandato, Casanova, bibliotecario in un castello della Boemia, rievoca la sua vita densa di amori e di avventure. Prima, da giovane a Venezia, dove, incarcerato per la sua vita sregolata, evade dai Piombi e comincia a vagare per le corti europee conducendo una vita ricca di amori e truffe. Con il passare del tempo il successo con le donne comincia a scemare. Molte porte gli si chiudono in faccia mano a mano che la degradazione fisica e morale aumenta. Trova infine rifugio presso un nobile boemo che lo esibisce come fenomeno da baraccone.

Federico Fellini: «Mi sono messo in testa di raccontare la storia di un uomo che non è mai nato, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un “ italiano” imprigionato nel ventre della madre, sepolto là dentro a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto, in un mondo privo di emozioni, abitato solo da forme che si considerano in volumi, prospettive scandite con raggelante, ipnotica iterazione. Vuote forme che si compongono e si scompongono, un fascino da acquario, uno smemoramento da profondità marina, dove tutto è completamente appiattito, sconosciuto, perché non c’è penetrazione, dimestichezza umana.»

Tra malìe figurative e genialità, incisività di scrittura e sguardo lucidissimo, il regista riminese licenzia uno dei suoi ultimi capolavori assoluti, un’opera visivamente sempre affascinante (valgano per tutte la sequenza della fuga di Casanova dai Piombi e quella, meravigliosa, nel teatro di Dresda, con gli inservienti che spengono le candele dei lampadari calati dal soffitto) e continuamente scossa da fremiti, rantoli, palpitazioni, schegge di follia, tra minacciosi presagi, assurdità e bizzarrie, caricature allegoriche e insondabili misteri, una wunderkammer sepolcrale in cui immergere l’eterno dualismo tra Amore e Morte e ammirarne senza compiacimento la lenta e inesorabile estinzione.

Il Settecento di Giacomo Casanova diviene, così, cornice oscura e percorsa da umori mefitici, assai distante, quindi, dal cosiddetto “secolo dei lumi”, le diatribe storico-filosofiche che ne scandirono l’evoluzione (“La forza bruta contro l’intelligenza, il buon selvaggio, esaltato da quel noioso di Rousseau, contro il gentiluomo con stile e cultura”) vengono osservate e rappresentate con occhio “moderno” (tutt’altro che casuale, in questo senso, la scelta di Fellini di adattare tra le pieghe del racconto il testo di alcune poesie e canzoni contemporanee: da quelle in dialetto veneto di Andrea Zanzotto nell’incipit durante il Carnevale di Venezia a La grande Mouna di Tonino Guerra, recitata nella splendida sequenza londinese con la balena, da La mantide religiosa di Antonio Amurri a Il cacciatore di Wuttemberg di Karl A. Walken) nel momento del tramonto, con la teatralità della finzione scenografica (il mare in tempesta, ad esempio, ricreato con i sacchi per l’immondizia) a sottolineare il distacco dalla cornice storica e ambientale per esaltare la potenza evocativa dell’astrazione simbolica, mentre il Grottesco diviene estremizzazione poetica con cui enfatizzare ulteriormente le artificiosità della messinscena e innervare con guizzi surreali la virulenza corrosiva dell’approccio allegorico-satirico. E per quanto Casanova possa intonare le sue accorate liriche alla purezza dell’Amore (“Trascendiamo il piacere della carne, prodighiamoci per fondere le nostre anime in unione profonda e perfetta. L’amore è sorgente e radice di vita, l’amore genera impulsi e passioni, sia cattive che buone, l’amore genera la fiamma eterna, sia divina che umana, l’amore genera dei e demoni”), i suoi amplessi restano atletiche e surreali baraonde di lascivia stilizzata, pantomime buffonesche con cui cristallizzare coreograficamente la meccanicità dell’atto sessuale e l’eccentricità delle perversioni.

L’evidenza dei fondali dipinti, i carillon, la bambola meccanica, la lanterna magica (il cinema, ovvero “la morte al lavoro”: ancora funeree suggestioni), la reiterazione spasmodica dei gesti, ormai privati di ogni umanità e orientati esclusivamente alla riproduzione “automatica” dell’atto in sé, si mostrano, poi, come simbolica e compiuta espressione della finzione, sia storica che artistica, sublimando l’evidenza della falsità in una visione depurata da qualsiasi eroica mitizzazione per coglierne, perciò, l’essenza più intima e vitale. E Casanova diviene di volta in volta maschera, burattino, specchio, attore, regista, senza per questo mai cessare di essere personaggio vero, reale, pulsante di vita e malato di morte.

Cast magnifico: da Donald Sutherland, in una delle interpretazioni fondamentali della carriera, a una meravigliosa Tina Aumont, da Daniel Emilfork nei panni del gobbo Du Bois (“gentiluomo eccentrico, dagli incerti confini amorosi, come incerti erano i confini del Ducato di Parma, diviso tra spagnoli e francesi”) alle irresistibili Carmen Scarpitta e la futura regista Diane Kurys (le irriverenti Madame Charpillon e “la di lei degna figlia”), da Olimpia Carlisi nei panni di Isabella a Reggie Nalder in quelli dell’infido Faulkircher, fino alla comparsata del giovane Renato Zero (già con Fellini nel Satyricon) tra i cantanti dell’opera. Ma, come consuetudine nel cinema di Fellini, a lasciare sbalorditi è il fascino e la cura maniacale del décor scenografico alla base delle strabilianti invenzioni visive del film: dalla magnifica fotografia di Giuseppe Rotunno allo sfarzo delle scene, ideate dallo stesso regista e realizzate da Danilo Donati, a cui si devono anche i costumi del film (premiati con l’Oscar), dal make-up di Donald Sutherland, opera di Giannetto De Rossi, fino alle coreografie delle danze, curate da Gino Landi, e ai disegni della lanterna magica, firmati da Roland Topor. E, infine, la straordinaria colonna sonora di Nino Rota (composta senza aver neanche visionato i giornalieri), quasi un film nel film per le infinite suggestioni evocate dai suoi favolosi movimenti. Un’opera lugubre e cadaverica, magicamente sospesa tra follia, genialità e malinconici lampi di poesia. E un capolavoro.

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