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Cambio tutto! La coscienza è la cosa più importante: intervista a Guido Chiesa

Prodotto da Colorado Film con Medusa e disponibile su Amazon Prime Video, a partire dal 18 Giugno, Cambio Tutto!

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Prodotto da Colorado Film con Medusa e disponibile su Amazon Prime Video, a partire dal 18 Giugno, Cambio Tutto! è non solo l’occasione per parlare del nuovo film di Guido Chiesa, ma anche di fare il punto sulla carriera di un regista capace di mettersi continuamente in discussione.

A partire dalla decisione di lasciare l’Italia per imparare a fare cinema negli Stati Uniti, a contatto con registi indipendenti del calibro di Amos Poe e del Jarmush di Stranger than Paradise. E, dopo sette anni, di tornare in Italia per intraprendere un percorso artistico che lo ha visto passare dal cinema impegnato e militante di film come Il partigiano Johnny, Alice è in paradiso e Lavorare con lentezza a quello più leggero e commerciale di commedia quali Belli di Papà, Ti presento Sofia e Cambio tutto!.

Sempre all’insegna di una coerenza che oggi non gli impedisce di raccontare con altri toni le storie di personaggi rivoluzionari perché capaci di mettersi in discussione e di aprirsi alle possibilità del cambiamento. Come fa in Cambio Tutto! il personaggio di Giulia, interpretato dalla brava Valentina Lodovini.

Di seguito l’intervista al regista

Il tuo è un inizio fuori dal comune, nel senso che lasciare l’Italia per andare a fare cinema negli Stati Uniti è stata una cosa tutt’altro che scontata. In seguito altri – non molti – hanno fatto la stessa scelta; penso per esempio a Roberto Minervini. Quanto è stata formativa quell’esperienza, considerando che l’hai fatta a contatto con registi indipendenti del calibro di Amos Poe e Jim Jarmush?

Sono partito a ventitré anni, quando ancora non ero nessuno. C’è chi lo ha fatto essendo già famoso e penso, per esempio, a Gabriele Muccino e poi a Roberto Minervini, la cui storia è un po’ diversa dalla mia. Ciò che mi ha spinto fu innanzitutto il mito dell’America cinematografica e musicale e poi perché all’epoca mi sembrava impossibile venire a girare a Roma. A quei tempi in Piemonte non esisteva nulla, tanto meno una cinematografia: i primi videomakers erano tutta gente delle mia generazione che aveva iniziato nei primi anni ’80.

In alcuni festival italiani avevo conosciuto dei registi americani più giovani di me e quasi tutti di New York. Appartenevano alla corrente della New Wave del nuovo cinema americano e tra loro c’era, primo fra tutti, Amos Poe. Chiesi se giravano qualcosa e se potevo vederli mentre lo facevano. Così, dopo essermi laureato, sono partito con l’idea di stare via tre mesi, cosciente che Amos avrebbe iniziato un nuovo lavoro proprio in quel periodo. Quando il film venne rimandato fui costretto a trovarmi dei lavoretti, mentre per la casa fu Jarmush a trovarmi una stanza nel suo stesso palazzo.

Il film di Poe iniziò parecchio tempo dopo. Sul set mi presentai con in dosso abiti eleganti, nonostante girassimo sempre di notte e in una zona molto malfamata. Avendo visto le foto di Pasolini e Antonioni, il più delle volte vestiti con giacca e cravatta, pensavo si dovesse fare così. Vedendomi parlare solo con Poe, cosa che facevo perché era l’unica persona da me conosciuta, uno degli aiuto registi mi chiese se fossi un produttore europeo. Dopo avergli spiegato che ero lì per imparare mi offrirono di fare da custode a un camion. Per farla breve alla fine delle riprese mi pagarono con un assegno di 400 dollari, cosa che non mi parve vera, non avendo io neanche il permesso di soggiorno.

Fu una svolta, perché subito dopo Jarmush doveva girare Stranger than Paradise e io gli chiesi in tutti i modi di portarmi con sé. Lui mi diceva che non avendo alcuna cognizione tecnica del set e con la troupe ridotta all’osso sarebbe stato un peso avermi intorno. Anche in quel caso c’è stato qualcuno che ci ha messo una mano dall’alto, perché nel frattempo arrivò il produttore tedesco, il quale non solo era fidanzato con Cinzia Torrini ma era molto amico di Davide Ferrario, che io conoscevo da tempo.

Fu lui a convincere Jarmush a prendermi come autista e cuoco e così è stato (ride, ndr). Oltre a imparare un sacco di cose, l’esperienza fu così forte da farmi decidere di restare in America.  Nel 1987  fui vicino a realizzare il mio primo film, poi saltato perché i produttori europei non riuscirono a trovare gli ultimi finanziamenti.

Una serie di contatti fortuiti aumentarono la mia voglia di tornare in Italia: una volta a casa una persona decise di rappresentarmi e di far girare la sceneggiatura, destinata a diventare il mio primo film, Il caso Martello. Tutto questo successe negli anni Novanta, sette anni dopo essere partito per gli Stati Uniti.

Senza dimenticare che tu sei anche un critico musicale, mi sembra si possa dire che il tuo cinema, soprattutto quello degli inizi, esplora la storia d’Italia da un punto di vista che oggi chiameremo antagonista. Questa, infatti, è una delle principali caratteristiche di opere quali Il partigiano Johnny, Lavorare con lentezza, Alice è in paradiso. Anche in questo sei stato un precursore.

Diciamo che io arrivo al cinema non per una questione famigliare ma piuttosto perché, essendo stonato, sapevo di non poter realizzare il mio sogno e cioè cantare in un gruppo rock. In più c’era che non avevo la pazienza di scrivere di letteratura. Al contrario, il cinema ti permette di fare un po’ tutto senza saper fare niente. Nell’ultimo anno di liceo e all’inizio dell’università ho scoperto il linguaggio audiovisivo, il cui fascino mi spinse a cimentarmi nelle sue varie forme.

In tutto questo coltivavo una forte passione politica, praticata in un mondo vicino a un tipo di sinistra estrema ma creativa, che è più o meno quella raccontata in Alice in paradiso e Lavorare con lentezza. Senza avere intenzione di farla a tempo pieno, il cinema per me significava continuare a portare avanti quel discorso. Sotto questo profilo, vivere negli Stati Uniti fu molto significativo perché vedere l’Italia da lontano mi ha permesso di valutare la storia di quel periodo in una maniera molto diversa.

Cioè, sono contento di aver vissuto a distanza due fenomeni come quello dello yuppismo italiano e del post moderno di Massenzio, del trash elevato a cultura. Jarmush mi diceva che noi eravamo importanti perché avevamo Antonioni e Pasolini e non per Drive In e Bombolo. Credo davvero che il post moderno sia stato per le generazioni degli anni ’80 e ’90 un passaggio magari necessario, per carità, ma profondamente negativo.

Ci ha resi indifferenti rispetto a tante cose e il risultato lo si vede nell’inerzia dell’Europa e in particolare dell’Italia di fronte agli avvenimenti del mondo. A me ha molto colpito che rispetto alla vicenda di George Floyd tutti hanno protestato, mentre da noi ci sono state reazioni tiepide o inesistenti. Nel campo della politica siamo ancora fermi ai soliti teatrini, quelli simili al periodo craxiano. Parliamo di una politica televisiva, incapace di confrontarsi con la realtà.

La nostra è forse la società più cinica dell’intera Europa. Ho amici in vari paesi e, continuando a viaggiare, ti posso dire che questo atteggiamento non c’è da nessuna altra parte. È anche una reazione al fatto che nei decenni precedenti nessuno ha avuto una stagione di movimenti così forte come quella italiana degli anni Sessanta e Settanta. In Germania è durata due anni, in Inghilterra non l’hanno mai avuta, in Francia si è svolta dal Sessantotto all’inizio del nuovo decennio. Da noi, invece, è durata tanto, lasciando profonde ferite.

Nessuno ha avuto le Brigate rosse. In quegli anni il fatto di starmene lontano mi ha permesso, una volta tornato in Italia – all’epoca dello sdoganamento di Alleanza Nazionale e del governo Berlusconi –, di non farmi imbambolare da questa cultura del post moderno. L’idea che il linguaggio audiovisivo sia una strumento potentissimo, fatto per emozionare le persone, per farle divertire, piangere, e anche riflettere per me non è mai venuto meno.

Sarò passatista, ma il cinema che si riduce solo a citazionismo, al discorso del cinema sul cinema, è una cosa che fa molto male alla settimana arte perché le persone entrano in sala per vedere delle storie, per emozionarsi, eventualmente per pensare. Farlo, avendo come scopo quello di riconoscere i  lungometraggi che sono dietro a una certa scena, significa impoverire la propria opera e la vita di chi la guarda. Mi sembra qualcosa di pericoloso.

A colpirmi è il fatto che tu abbia espresso lo stesso punto di vista di Daniele Vicari, il quale in un’intervista di qualche settimana fa mi parlava del cinismo presente nella società italiana.

Pur con grosse differenze su alcune aspetti della questione politica, con Daniele abbiamo fatto un pezzo di strada insieme e questa posizione è assolutamente qualcosa che condividiamo. Forse io ho messo più in discussione alcuni presupposti del pensiero di sinistra, lui meno, però abbiamo in comune questo concetto, come pure l’idea di un cinema capace di emozionare, di racconti storie e di far riflettere.

Allo stessa maniera dei film americani spettacolari ed emozionanti che ci hanno appassionato. A formarmi non è stato Antonioni, ma John Ford, Howard Hawks e Apocalypse Now. Dopo averli visti, uscivi dal cinema emozionato e ti mettevi a pensare perché le loro storie non restavano fuori ma dentro la tua vita, un po’ come succede con la grande musica e letteratura. Dostoevskij, Patti Smith o Jimmi Hedricks o Bob Dylan non è che mi piacevano perché Dylan citava Woody Guthrie. Le loro canzoni e i loro libri hanno aiutato a rendere la mia vita un po’ più umana. È per questo che ancora oggi li porto dentro di me. 

Intervistando Paola Lavini, in occasione della sua nomination ai Globi d’Oro 2020, ci siamo trovati a parlare della comune passione per Quo Vadis Baby?, la serie televisiva da te diretta. Anche in quel caso sei stato precursore.

Si, tra l’altro, Paola Lavini ha partecipato a quel lavoro. Diciamo anche che sono stato fortunato ad affrontare certe esperienze prima di altri. Questo non vuol dire che non abbia avuto problemi. Al di là della qualità o meno del lavoro, quando abbiamo fatto Quo Vadis Baby? scontai molto l’impreparazione di Sky. Si trattava della prima serie fatta in Italia, per cui nella successiva aggiustarono il tiro.

Parliamo di Romanzo Criminale, una saga con alle spalle un libro famoso e un film più fortunato di quello di Salvatores. Per lui Quo Vadis Baby? fu il lungometraggio andato meno bene. Essere un precursore ha sempre le sue contro indicazioni (ride, ndr).

Anche per quanto riguarda il passaggio alla commedia, che oggi anche altri vorrebbero fare, mi considero fortunato. La mia è stata una scelta consapevole, per nulla obbligata dagli eventi. Io nel 2010 faccio un film che mi crea molte inimicizie in un certo ambiente del cinema vicino alla sinistra e cioè Io sono con te, incentrato sull’infanzia di Gesù e su Maria di Nazareth.

Quel lavoro ottiene le migliori recensioni che abbia mai avuto, anche perché non è che Il partigiano Johnny fu considerato così bene dalla critica. Magari con il tempo assieme ad altri è entrato a far parte della cultura italiana, però all’epoca né lui né gli altri furono accolti così bene dai critici. Ciò detto, Io sono con te uscì nelle sale e a fronte del costo di 3 milioni di euro ne incassò solo 100 mila.

Di fronte a questo risultato mi sono reso conto di non poter continuare a portare avanti progetti del genere. Cioè, io vorrei insistere nel fare film impegnati e drammatici, ma si tratterebbe di un’ostinazione priva di senso. I miei produttori della Colorado mi dissero che il mercato stava cambiando e così è. Oggi Daniele (Vicari, ndr) fa televisione, mentre sono pochi a continuare a fare quel tipo di cinema: per esempio Sorrentino e Garrone, ma solo perché sono stati legittimati dal successo internazionale.

La maggior parte dei registi delle mia generazione ha smesso. Accettare l’opportunità di cambiare mi è costato quasi cinque anni di inattività in cui ho fatto da produttore per la Colorado senza dirigere alcun film. Poi, quando mi hanno portato il soggetto di Belli di papà ho pensato fosse una storia in cui ci fosse qualcosa che potevo raccontare: parlo dei rapporti generazionali e dell’incapacità dei padri di seguire i propri figli. Mi sono interrogato sulla mie possibilità di fare ridere il pubblico e con quel film ha funzionato. Anche in quel caso mi sono  attirato una qualche ostilità da un certo mondo della critica che mi considera un venduto.

In realtà, ho preso solo atto della situazione, nella consapevolezza di essere responsabile di una famiglia e nella considerazione di dover far fronte a una situazione diversa da quella iniziale. A 55 anni, l’eta in cui ho fatto Belli di Papà, pensare di cambiare lavoro era impossibile perché non avrei saputo da che parte cominciare. Non sono stato così fortunato da aver avuto una famiglia alle spalle in grado di farmi vivere di rendita. So fare il cinema e ho provato a continuare a farlo. Finora mi è andata bene e spero che la distribuzione on demand darà la possibilità di tornare a fare anche altri tipi di film. Essere un precursore presenta dei rischi. Io non ci penso. Mi limito a fare le cose che la vita mi mette davanti nel migliore modo possibile e senza che me ne debba vergognare. Dunque, sono contento delle mie scelte.

Tale trasformazione penso sia stata aiutata dalla mentalità appresa nell’apprendistato americano e cioè in un mondo in cui gli autori passano con maggiore disinvoltura dal cinema impegnato a quello mainstream. Se poi andiamo ad analizzare i film che hai fatto – da Belli di papà a Io sono Sofia fino a Cambio tutto! – è possibile trovarvi una continuità interna anche rispetto al tuo cinema  precedente, perché ieri come oggi continui a raccontare personaggi rivoluzionari. In questi ultimi film lo fai con un tono differente da quello del passato, ma la dimensione è sempre la stessa. Sei d’accordo su questo?

Sono d’accordo. C’è chi dice che Gesù Cristo è stato il più grande rivoluzionario (ride, ndr). Dunque sì, è vero, mi piace raccontare personaggi capaci di mettersi in discussione, in movimento, disposti a farsi domande e a cambiare. È vero che sono tutti così: dai figli di Belli di Papà agli studenti di Classe Z, consapevoli di essere vittime di un esperimento sociale, all’uomo bloccato nel conflitto relazionale in cui la figlia e la donna lo costringono a scegliere tra una e l’altra in Ti presento Sofia.

Per me i personaggi che cambiano prospettiva nel corso della storia sono i più belli da raccontare. Una volta pensavo di più ai mutamenti sociali, oggi invece mi interessa analizzare i cambiamenti del singolo, perché le gradi rivoluzioni politiche e sociali partono sempre dalla persona. Se ognuno di noi non si mette in moto non puoi provocare grandi cambiamenti.

In Cambio tutto! questo lo fai dire al personaggio di Neri Marcorè. Quando Giulia entra in crisi è lui a suggerirgli di partire da se stessa e non dagli altri per cambiare la propria condizione.

Bravo! È esattamente così. Noi non possiamo cambiare gli altri, però siamo in grado di modificare noi stessi e questo agisce sulla realtà circostante cambiando l’atteggiamento di chi ci sta di fronte. Poi, magari, qualcuno ne patisce anche le conseguenze, ma per esempio cos’è che più di tutto ha cambiato la condizione della donna al di là delle marce, delle manifestazioni e dei proclami?

A riuscirci è stata il fatto di portare la bontà di quelle idee nelle vita reale e nel diverso atteggiamento assunto dalle donne all’interno della famiglia e nei confronti del maschile. Anche pagandone le conseguenze. Per cambiare la scuola, ad esempio, io non credo servano grandi leggi ma, attraverso i miei figli, capisco che lo possono fare i singoli docenti. Se a questi ultimi piace il proprio mestiere a cambiare è innanzitutto il rapporto con gli studenti, che al mattino si svegliano con la voglia di andare a lezione. Se un docente non ama i ragazzi e non è entusiasta della materia del proprio insegnamento non cambia la scuola ma la peggiora. Anche se poi fa grandi proclami, fa gli scioperi e firma i manifesti.

L’esempio della Resistenza ci dice che ognuno di noi può fare una piccola parte all’interno di un collettivo. Chiunque è chiamato a farla. La resistenza mi ha sempre affascinato perché non è nata dal proclama di andare a combattere i nazifastisti. Al contrario, quei ragazzi hanno deciso di farlo anche per ragioni non nobili, come quelle dettate dalla paura di finire nei campi di prigionia o per il timore di essere chiamati a fare il servizio militare. C’è qualcuno che l’ha fatto anche per andare a rubare.

Non dico che tutto fosse oro colato, ma l’hanno scelto e lo hanno fatto individualmente, non perché qualcuno glielo ha detto. La nostra coscienza è la cosa più importante perché guida le nostre scelte. Per me è centrale ed è la cosa che mi piace raccontare nei miei film. Cambio tutto! è la storia di una donna decisa a non accettare più determinati soprusi e che con fatica si mette in discussione, scegliendo di cambiare. Come, non lo sa ancora, però non si perde d’animo e comincia a tagliare alcuni rami secchi della sua a vita, aprendosi con fiducia a una nuova esistenza e a un nuovo modo di relazionarsi con il mondo.

Il personaggio di Giulia è costruito mettendo insieme due modelli femminili e cinematografici: da una parte la desperate housewife, dall’altra la donna in carriera. Due tipologie molto presenti sopratutto nella commedia americana. La novità di Cambio tutto! è vederle entrambe nella stessa persona.

Mi piace quello che tu dici. Si, è vero. Adesso non so dire se è così in assoluto, ma di rado questi due modelli vengono utilizzati nello stesso personaggio. A pensarci bene, forse uno di questi potrebbe essere quello di Anne Hathaway ne Il diavolo veste Prada. Non so se ne convieni?

Era tra gli esempi che ti avrei citato.

È un personaggio poco raccontato. Spesso nel campo del femminile la ribellione va contro un marito opprimente, qua invece è contro se stessi, contro la parte di sé che subisce e che poi non sa gestire la rabbia. La principale nemica di Giulia in realtà è la sua personalità. Lei il mondo esterno lo subisce perché non si interroga fino in fondo su cosa vuole, su che cosa è disposta a fare, su qual è il limite oltre al quale gli altri non possono andare e che lei lascia che ogni volta venga superato.

Un’altra differenza presente in Cambio tutto! è che il fine ultimo del film non è, come accade in tante commedie americane, quello di raccontare il successo nel lavoro o in campo sentimentale. Cambio tutto! non è un altra storia incentrata sulla guerra dei sessi perché le donne non sono solidali le une con le altre: Giulia è un personaggio solo contro tutti, dunque Cambio tutto! altro non è che un percorso di liberazione al femminile.

Si, è giusto quello che dici e ti ringrazio. Aggiungerei anche un’altra cosa rispetto a un film con cui qualcuno ha voluto trovare analogie e cioè che non è neanche Thelma e Louise, la cui storia è destinata a concludersi su una nota disperata, perché in sostanza quel finale è un suicidio, mentre nel mio Giulia parte per mettersi in cammino e iniziare a vivere.

Lo sviluppo narrativo prevede una prima parte per così dire destruens e una seconda costruens. La sfida che sei riuscito a vincere è stata di costruire in entrambi i casi una drammaturgia credibile. Nonostante il parossismo delle situazioni, la storia si mantiene in entrambe le versioni reale e non caricaturale.

Io l’avrei fatto ancora meno parossistico però, come sai, si tratta di un remake con ben tre antecedenti, quindi si doveva tenere anche conto del modello originale. Noi abbiamo cambiato tanto rispetto alla versione spagnola, ritenuta la più efficace dai nostri produttori, però non si poteva stravolgerla A mio avviso, il limite del film spagnolo era il grottesco.

Noi abbiamo cercato di toglierlo, anche se qualcosa è rimasto. Si trattava di un elemento che per forza di cose doveva restare perché altrimenti si rischiava di virare troppo al dramma, oppure di fare una commedia annacquata, di quelle che avendo paura di essere troppo leggere e di non far riflettere finiscono per essere inconsistenti. Ripeto, in certi passaggi l’avrei fatto meno parossistico.

D’altro canto, questo è un film costruito molto insieme ai produttori, figura a cui almeno in Italia non siamo più tanto abituati. Al contrario, li ritengo figure positive poiché rispetto alle leggi del mercato sono loro a metterci la faccia, prendendosi le responsabilità del risultato. Ascoltare i loro obiettivi per me è molto importante. Stamattina, ad esempio, abbiamo fatto una riunione per quello che dovrebbe essere il prossimo film di cui non ti posso ancora dire nulla: ebbene io avevo una certa idea sul cast e loro me l’hanno smontata con delle giustificazioni ragionevoli in quanto oggettive.

Di fronte a questi fatti si è di fronte a un bivio: scegliere di rivendicare l’autonomia dell’artista, oppure riconoscere di essere all’interno di un processo collettivo che è il cinema. Così come ascolto il direttore della fotografia e il montatore, devo farlo anche con loro. Fare tutto da solo alla fine non paga. Quindi i produttori non li vedo mai come miei nemici. Certo, se puntano solo a risparmiare o a fare cassetta nei modi più beceri allora non sono d’accordo, ma se discutendo dei personaggi mi fanno capire che un certo attore non va bene io li ascolto. Anche se magari ero partito con un’idea diversa. Rimettersi in discussione fa parte di qualsiasi cambiamento.

Parlavi di come le politiche degli ultimi vent’anni abbiano svuotato il paese di consapevolezza e di spirito critico, lasciandolo più vuoto. Cambio tutto! è anche un film sulla solitudine derivante dall’impoverimento culturale. Molte delle persone con cui parla Giulia si esprimono per slogan privi di sostanza.

È verissimo quello che dici, sono d’accordo, assolutamente.

Per concludere vorrei parlare degli attori. In questo caso ne hai scelti due come Valentina Lodovini e Libero Di Renzo, che sono nati come interpreti drammatici e solo in un secondo tempo sono stati impiegati nella commedia. Mi pare si sia trattata di un opzione ripagata, perché entrambi, ma soprattutto la prima, riescono a rimanere credibili nonostante gli estremi presenti nei rispettivi ruoli.

Ci sono dei ruoli che non tutti gli attori possono fare. Se tu sai interpretare un’unica gamma di toni non ci riesci. La Lodovini o anche Libero sono attori che riescono a lavorare su più registri e questo per me è una grande qualità. A tal proposito, credo che il cinema americano e in particolare i suoi interpreti costituiscano un punto di riferimento. L’attore e il regista capaci di lavorare su più registri sono quelli che hanno il controllo della materia e di quello che è l’obiettivo, cioè rendere credibile e profondi i personaggi.

La Lodovini come pure Neri Marcorè hanno queste caratteristiche, alla pari degli altri attori con cui ho lavorato. Qualcuno per esempio dice che a Fabio De Luigi questa sia una dote che non gli appartiene. Il  fatto di essere un comico puro, però, non gli ha impedito di dimostrare il contrario e, dunque, di essere un bravissimo attore drammatico. Non lo si è ancora usato molto in tal senso perché taluni si spaventano un po’ di impiegarlo in storie drammatiche. Lui però sarebbe in grado di farle. Come al solito la forza sta nella possibilità di aprirsi al cambiamento.

  • Anno: 2020
  • Durata: 90
  • Genere: commedia
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Guido Chiesa
  • Data di uscita: 18-June-2020

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