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CURON: la recensione degli episodi della nuova serie tv Netflix

Nel paesino di Curon aleggia una maledizione: saranno due fratelli gemelli, la cui famiglia è intimamente legata al mistero, a dover combattere per le loro sorti

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Curon Venosta è un comune italiano della provincia autonoma di Bolzano in Trentino-Alto Adige, e nonostante i suoi soli 2000 abitanti è anche un paese famoso per la sua storia: nel 1950 viene allagata dal neocostruito lago artificiale, e mentre il paese viene ricostruito sul lato orientale della valle, e la popolazione viene obbligata a trasferirsi, i suoi edifici sono sommersi, lasciando il campanile ad ergersi solitario fuori dalle acque, diventando una (sinistra) attrazione turistica.

Ma Curon è anche il titolo di una miniserie Netflix, disponibile dal 10 giugno sulla piattaforma: con una storia che mette al centro Anna Raina –Valeria Bilello-, una donna milanese che dopo quasi due decenni torna nel suo paese natale (Curon, appunto), insieme ai figli gemelli Mauro e Daria, stabilendosi insieme al nonno nel solitario e oscuro albergo di famiglia, ormai in disuso. Sarà l’inizio di una discesa agli inferi di una mortale eredità familiare. In cabina di regia, Fabio Mollo per 4 episodi dei 7 totali era una garanzia per la riuscita dell’operazione: che era coraggiosa e significativa, in quanto prodotto Netflix tutto italiano che riprendeva i famigerati generi, dopo gli esperimenti fallimentari di Baby, Suburra e La Luna Nera e il più riuscito Skam. Ma probabilmente la N rossa non porta bene alla penisola, perché Curon segue la scia dei suoi precedenti diventando un’operazione sfiatata e senza carattere.

ORRORE SENZA CARATTERE

Resta l’amaro in bocca soprattutto considerando la produzione cinematografica di Mollo: regista sensibile e con un tocco autoriale e personalissimo, che con i suoi Il Sud E’ Niente e Il Padre D’Italia si era imposto alla critica e al pubblico come una delle voci più originali della nuova ondata italiana. Curon è un oggetto non identificato, prima di tutto: nelle intenzioni un horror, nello svolgimento un fiacco teen drama, nei risultati una lunga e stremante storia diluita in sette ore per la cui narrazione era più che necessario giusto il minutaggio di un lungometraggio.

Perché il cote fantastico è abbozzato e fortemente derivativo: non c’è una sequenza che sia una ad imporsi all’attenzione dello spettatore, con sguardi diversi che riecheggiano ora le zoomate di Argento ora le steadycam à la Shining, aggiungendo soluzioni tecniche o abusate o senza senso narrativo -come l’inquadratura che ondeggia e si piega, o campo/controcampo gettati lì per virtuosismo ma per nulla funzionali alla narrazione. Della sensibilità di Mollo mostrata su grande schermo neanche l’ombra: perdipiù, il regista calabrese mostra lampante la sua incapacità di avere uno sguardo personale che si tramuta in perizia tecnica, non riuscendo a dare un’impronta alle sue riprese.

Certo non è dato sapere quanto l’apparato produttivo e il marchio Netflix abbiano influito sul lavoro e sulle riprese: perchè alla fine il dubbio viene, se sia Baby che Suburra che La Luna Nera fanno legittimamente pensare che la ricercata e voluta internazionalizzazione del prodotto abbia fatto si che le scelte dei registi siano state messe probabilmente in secondo piano, così come -magari- la sceneggiatura.

Ma la dietrologia non serve. Di tensione, o paura, neanche a parlarne: e questo è forse il peccato che non si riesce a perdonare ad una serie che, progettualmente, doveva essere un serial thriller, con colpi di scena telefonati o svolte di trama assurde.

Di certo, gli attori non aiutano: la Bilello mette il pilota automatico e tira fuori il peggio, Lionello si attesta sul livello più mediocre di recitazione televisiva, tutti gli altri parlano in un romano così spinto da riuscire fastidiosi.

UNA TRAMA ANNEGATA

Purtroppo, tutto questo corollario tecnico-artistico è a supporto di una trama così scontata da non dare nessun appiglio a chi cerca agganci di fascinazione: fin dall’inizio, la confusione regna sovrana, e la scrittura ad otto mani (Abbate, Fachi, Galassi, Matano) mescola insieme senza soluzione di continuità spunti di per sé interessanti ma che si perdono e si sfilacciano via via che la costruzione della storia dovrebbe farsi più complessa. Un contesto sociale che unisce folklore e paura della modernità, un’influente famiglia invischiata nell’annegamento di Curon, il conflitto tra popolazione austriaca e italiana: sono spunti di racconto che appaiono qua e là frastornati da un cromatismo blu notte spintissimo e fin troppo declamatorio, che perdono forza strada facendo e che soprattutto non hanno svolgimento né conclusione.

Curon sembra, per la prima metà, un lunghissimo e noioso antefatto dove si capisce ben poco di dove si voglia andare a parare: quando poi parte del disegno si svela, si perde quel poco di tensione emotiva ed inizia una corsa sfrenata al jump scare, senza riuscirci. Quello di buono che c’era su carta (la presenza fantasmatica del campanile, i riti propiziatori di una tradizione millenaria e spaventosa, riflessi di una religione opprimente e soverchiante) viene accennato come per stuzzicare la curiosità e poi si perde nel vento, il climax non si raggiunge mai, la noia emerge a piè sospinto.

La pietra tombale sull’operazione è poi proprio nel tessuto narrativo: se l’approfondimento psicologico è fatto con l’accetta: ma la regola base della narrativa mistery è dare allo spettatore indizi per risolvere l’enigma.

Qua di tracce neanche l’ombra. Ma non c’è neanche uno svelamento finale, e lo spettatore fatica ad avere quella visione d’insieme che avrebbe dato alle sette puntate un qualsiasi senso.

E allora Curon resta in quel limbo malmostoso delle serie “vorrei ma non posso”: la vera paura è che il finale di stagione semi aperto lasci il campo ad una seconda stagione.

 

  • Anno: 2020
  • Durata: 360'
  • Distribuzione: Netflix
  • Genere: mistery
  • Nazionalita: italia
  • Regia: Fabio Mollo, Lyda Patitucci
  • Data di uscita: 10-June-2020