Luglio 1945: alla vigilia del vertice di Potsdam fra Churchill, Truman e Stalin che deciderà le sorti della Germania uscita sconfitta dalla guerra, un giornalista americano (George Clooney) viene inviato per seguirne gli sviluppi e, durante il suo soggiorno in terra tedesca, ritroverà la splendida Lena (Cate Blanchett), di cui è stato innamorato. L’inaspettato incontro lo farà precipitare in un claustrofobico dedalo di intrighi, menzogne e verità che è meglio tenere nascoste.
Ritorno di Soderbergh al bianco&nero dopo il fallimento di “Kafka”, “Intrigo a Berlino” è una matematica rilettura dei fasti del cinema classico. Il duplice binario su cui il film poggia (la spy story di stampo tradizionale affiancata alle tormentate vicende personali dei protagonisti) sembra non discostarlo troppo da un generico omaggio al cinema noir del passato, peraltro molto in voga in questo periodo. Ma dove altri tentativi si sono fermati, pensando che la strutturazione di un intreccio tipico bastasse per evocare il modus operandi dello studio system, Soderbergh fa partire il suo tentativo. Dando infatti per assodata la tipicità di certe situazioni (il malessere post-bellico, l’amoralità del potere) e di certi personaggi (la dark lady, il tough boy che non riesce ad esorcizzare le lacerazioni dell’amore), il regista americano compie un passo ulteriore: utilizzando tecniche di realizzazione (audio in presa diretta, vecchi obiettivi Panavision) e filmati degli anni 40, inscrive “Intrigo a Berlino”, più che nella dimensione dell’omaggio, in quella, filologicamente più autoriale, della citazione. Con i rischi di algido manierismo che ne conseguono.
Luca Ippoliti