Turnè, un lungometraggio del 1990, il quarto diretto da Gabriele Salvatores, nonché secondo capitolo della cosiddetta Trilogia della fuga. È stato presentato nella sezione Un Certain Regard al 43º Festival di Cannes.
Il film è girato in varie parti d’Italia, in particolare a Gubbio e in Puglia: in questa regione si notano Lucera (la torre), Trani (la cattedrale), Polignano a Mare, Ostuni, Rutigliano e alcune località del Salento. Scritto e sceneggiato da Gabriele Salvatores, Fabrizio Bentivoglio, Francesca Marciano, Alessandro Vivarelli e Paolo Virzì, con la fotografia di Italo Petriccione, il montaggio di Nino Baragli, le scenografie di Marco Dentici e le musiche di Roberto Ciotti, Turnè è interpretato da Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Laura Morante, Barbara Scoppa, Claudio Bisio, Ugo Conti, Ninì Salerno.
Sinossi
Due uomini, amici dai tempi della scuola, fanno gli attori: Dario è estroverso e gioviale e ha un discreto successo, Federico sta invece attraversando un momento di crisi dovuto soprattutto a problemi con Vittoria, la sua fidanzata. Dario trascina Federico con sé in una tournée nella quale dovrà confessargli che Vittoria si è messa con lui.
Perché Gabriele Salvatores fornì l’esperienza cinematografica d’autore più fortunata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta? Il motivo è semplice: l’allora quasi quarantenne regista era uno dei migliori rappresentanti della sua generazione. Quella generazione che, come si vede ancor meglio nel suo capolavoro del primo periodo che è Marrakech Express, era rimasta travolta da tutto quel che avvenne dopo il Sessantotto e non si era più ripresa a forza di pensare al proprio ombelico. Ma, a differenza di sociologi da quattro soldi, Salvatores mette al centro della scena i temi universali a lui cari, riuscendo a coinvolgere tutte le altre generazioni. E in più ci mette l’affetto, la tenerezza e una spruzzata di malinconia.
Turnè, secondo capitolo della trilogia della fuga dopo Marrakech e prima di Mediterraneo (in cui la fuga è vissuta in una dimensione poetica ben espressa da Henri Laborit nella citazione “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”), non fa eccezione: la colonna portante è l’amicizia maschile, idealizzata, messa in pericolo e poi di nuovo celebrata per tutto l’arco del film. Scritto curiosamente anche da Fabrizio Bentivoglio (e curioso che Fabrizio nel film si chiami Federico, stesso mestiere, stessa iniziale e stesso numero di lettere, e chiami Diego Abatantuono col nome di Dario, stesse caratteristiche su citate), è il ritratto di due amici il cui rapporto è compromesso da una donna, Laura Morante, amata da entrambi (“Io vi amo tutti e due. E va bene, io voglio anche ammettere di aver sbagliato, ma il fatto è che voi due insieme siete un uomo perfetto. Allora da un certo punto di vista, vale a dire dal mio punto di vista, io mi sono innamorata di un uomo solo!”).
Senza andare a scendere tanto nel particolare, perché il film è semplice nella sua lineare morale e nel suo sviluppo leggero e scorrevole, basti vedere l’interpretazione dei due protagonisti principali: da una parte c’è il concreto e sbruffone Diego, dall’altra lo stralunato ed affascinante Fabrizio; da una parte il senso di colpa imperante e l’impossibilità di confessare la colpa, dall’altra l’impossibilità di uscire da un amore romantico e la vendetta neanche tanto appagante.