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An Elephant Sitting Still é il film monumento di Hu Bo. Il regista cinese della infelicitá
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4 anni agoon
An Elephant Sitting Still presentato nella sezione Forum alla Berlinale è stato sicuramente uno dei film più potenti del 2018 e uno dei più grandi esordi degli anni Duemila. Il film interamente girato, sceneggiato e montato da Hu Bo è tristemente noto per la morte suicida dello stesso alla sola età di 29 anni. Il film é da ora disponibile su Raiplay.
La trama di An Elephant Sitting Still
Il film ruota intorno a quattro anime tutte accomunate dall’ossessione per la città di Manzhouli in Manciuria dove si troverebbe, a detta delle voci over del prologo, un mitico elefante che trascorre la sua esistenza in una completa condizione di atarassia.
Per i quattro protagonisti questo luogo rappresenterà un motivo di fuga dalle situazioni che stanno vivendo. Il primo è Wei Bu (Yuchang Peng), un adolescente che ha ferito il bullo della scuola Yu Shuai (Xiaolong Zhang) e la sua compagna di classe Huang Ling (Wang Yuwen) che, distaccatasi totalmente dalla madre, ha ceduto al fascino del suo insegnante; troviamo poi il fratello maggiore di Yu Shuai che si sente responsabile per la morte suicida di un amico e, infine, Wang (Congxi Li) un pensionato il cui figlio vuole trasferirlo in una casa di riposo.
L’analisi dell’infelicità sociale
Hu Bo con grande abilità, propone un’alternanza fra uno stile prevalentemente lento a momenti più veloci per raccontare, senza tagli, la giornata dei suoi quattro protagonisti; un lasso di tempo relativamente breve se lo rapportiamo ai 230 minuti indispensabili e, talvolta insostenibili, del film.
Proprio per questo motivo l’opera risulta senz’altro impegnativa anche per il cinefilo più incallito, ma senza dubbio una lunghezza necessaria dati gli intenti registici di riprendere, senza stacco, azioni e sentimenti dei personaggi.
An Elephant Sitting Still si trasforma così in un film monumento-documento che con echi neo-realistici pedina, dietro le spalle, i suoi attanti con estremo garbo, educazione e rispetto. Grazie alla fotografia agghiacciante di Chao Fan si tratteggia una società crudele, apatica, immobile, priva di qualsiasi spinta propositiva e capace di schiacciare con il suo peso gli individui che la abitano dimostrandosi incapaci del tutto di sfuggirle.
Tramite una colonna sonora ipnotica e, a tratti disturbante, si racconta del fiume chiamato vita attraverso l’infelicità sociale vista sotto svariati punti quali: sociologici, antropologici e in relazione allo spazio urbano abitato. An Elephant Sitting Still è in grado quindi di parlare dell’incapacità degli individui a comunicare fra loro, all’inabilità umana a formare gruppi sociali solidali e come lo spazio in cui l’uomo agisce, sia capace di alterarlo.
Nelle Cina dipinta da Hu Bo non c’è rispetto per nessuno, non ha importanza che siano cani o anziani; fondamentalmente è più facile ignorare, abbandonare, umiliare o peggio ancora dimenticare.
Una realtà nella quale la generazione di mezzo rifiuta ogni tipo di responsabilità verso un proprio fallimento esistenziale (pensiamo ad esempio a quante volte sentiamo pronunciare “non è colpa mia” da Hoodlum Yang Cheng rifiutando di sentirsi responsabile del suicidio), mentre i ragazzi vittime di un sistema che attraverso famiglia, scuola e genitori li proietta verso un orizzonte dai grigi contorni.
Lo stile di An Elehant Sitting Still
In questa realtà periferica cinese non vi è posto nemmeno per l’arte come racconta bene il crudele intermezzo a metà film: il poeta è destinato a morire perché incapace di nuotare, nonostante il bagaglio di conoscenze che ne nobilita l’animo.
La realtà tragica viene quindi combattuta dai personaggi attraverso il viaggio e non solo vista come mero materiale di fuga, ma assurge a elemento figurato. Il viaggio verso l’elefante significa la salvezza, un viaggio interiore per ognuno dei protagonisti: rivelandosi per gli stessi una maturazione dalla totale disperazione, sconforto, solitudine e egoismo che attanaglia questo mondo caotico, rifuggendo all’empatia e ad ogni tipo di valore.
Hu Bo non mostrerà quindi l’elefante, ma ne farà sentire il barrito come a volerci comunicare che lo spostamento non provoca cambiamento e quindi, qualsiasi azione dei protagonisti sarà del tutto inutile perché la vita è sofferenza e la speranza è un miraggio. L’unica soluzione possibile sembra la morte.
Lo stile grazie a una fotografia completamente desaturata, inquadrature lunghe, carrellate, movimenti di macchina, primi piani, sfondi sfocati e piani sequenza accompagna i singoli personaggi nella realtà dimostrando come nulla sia lasciato al caso. Lo stile non invasivo del regista tratteggia la rete che a mano a mano si forma fra le quattro anime del film permettendoci di osservarne le dinamiche libero da ogni tipo di giudizio, ma piuttosto con un intento contemplativo e quasi liturgico.
An Elephant Sitting Still al contrario di altri film che hanno analizzato le stesse tematiche e, prescindendo dalla morte suicida del regista che troppo facilmente ne darebbe una banale lettura, è un film disperato.
L’aspetto che più colpisce è la profonda empatia che Hu Bo ha di condurci in questo mondo cupo, permettendoci di toccare con mano la mostruosità della psiche umana, verso quella necessaria riflessione espressiva tramutatasi in depressione. Il film in questo senso è sicuramente un’autopsia accorta sul fenomeno depressivo clinico in quanto tale. An Elephant Sitting Still ha perciò una funzione catartica, trovando una possibile cura, attraverso la messa in scena stessa.
Questa analisi, tuttavia, sarebbe riduttiva e semplicistica ecco quindi che il regista si distanzia dall’analisi neorealistica epidermica dei personaggi, espediente troppo facile per rapportarsi al reale, ma individua piuttosto una zona franca fra linguaggio stilistico neorealista e costruzione drammatica: un incontro di forme che permette l’esaltazione della poetica del primo, ricorrendo alla formalità espressiva del secondo.
Il regista sceglie la camera a mano, abbandonando il traballio tipico del genere, ma piuttosto “si prende e/o perde tempo” per immergerci nello spazio dei suoi personaggi che procedendo per accumulo, ci permette di entrare nella loro psiche. L’opera si dimostra così a pieno servizio dei suoi personaggi e non in una mera costruzione a tavolino della stessa; il legame solidale che si stabilisce fra le quattro anime li porta alla consapevolezza dell’atarassia come possibile soluzione, se poi questa sia l’unica risoluzione auspicabile al disagio interiore o mero palliativo, resta a noi spettatori deciderlo.
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