E’ raro ma esiste, coincidendo per lo più con l’acme della prima giovinezza, quell’istante – lirico, inerme e perentorio – in cui la vicinanza tra spiriti affini sposa lo stupore del mondo nella magia di una tregua irripetibile tra sé e l’esistenza. Victor/Pacquet – simil fratello corrucciato del Casablancas degli Strokes – e Rainer/Wojcik – specie di Baudelaire in giubbotto di pelle e alcool da due soldi in corpo – vivono siffatta epifania durante una fredda notte spesa tra i boulevards e i ponti di Parigi alla ricerca di una compagnia affettuosa (Victor: “L’ingenuità è bellissima. E’ rara al giorno d’oggi”); di una rivelazione decisiva (Rainer: “Adesso è l’ora magica. L’ora blu. L’ora in cui la città delle luci trema in un’alba risonante a Madrid o a Vienna”): entrambi in fuga dalla desolazione consustanziale alla modernità e dalle inquietudini senza sbocco di un’età precocemente avveduta.
In palese contrasto con la deriva realista cara a una consistente parte della cinematografia contemporanea, l’esordiente (al lungometraggio) figlia d’arte Klotz avvolge la sua storia entro una bolla di impermeabile eppure nervosa indeterminatezza, come se i rari eventi, colti sul farsi più che narrati – i giochi di seduzione abortiti o fallimentari all’interno di una discoteca; la contesa dai risvolti filosofici poi degenerata in rissa con un gruppo di coetanei; il girare a vuoto registrando un progressivo restringimento di prospettive che risuona ben oltre le contingenze di un’evasione sottratta alla routine – pretendessero comunque l’orizzonte di una verginità oramai fuori contesto, spettro beffardo che alligna in ogni sguardo deluso, in ogni slancio troncato sul nascere dalla ipocrisia e dal fatuo ribellismo altrui, generatore automatico di stupide umiliazioni: nel candore gentile scambiato per debolezza, e alla quale solo il dettato senza tempo dell’incedere poetico e il reame irriducibile del sogno (Reiner: “Dormo male in questi giorni. Non so cosa fare. Così ho ricominciato con la poesia. Leggo tutta la notte e mi addormento recitando brani che ho imparato a memoria. E’ il modo che ho per sognare”) sono in grado di restituire una voce sincera utile a rendere conto dell’inadeguatezza e del profondo senso di solitudine che traspira da un vero immaginato, progettato e realizzato al fine esclusivo di statuire una dimensione meramente materiale dell’esperienza umana, ossia, di fondo, una quinta amorfa e servizievole – per quanto spietata – cieca e muta a istanze che di fronte a quel fine riluttano, terreno fertile, d’altro canto e banalmente, per i semi di quella disperazione tanto furente quanto inane, oramai davvero incistata fin dentro gli atomi delle nuove generazioni.
Soprattutto per questo, l’eterno ritorno dei soliti errori, la fiducia nonostante tutto accordata alla giostra dei sentimenti, il velleitarismo delle presunzioni e gli accorgimenti espressivi volti a eternarli offrendo loro una consistenza esemplare acquistano, nell’autoindulgenza inerme e nella pacata sfrontatezza, il febbrile incanto delle prime volte, la sensazione falsissima – eppure sublime – della vita-messa-tra-parentesi anche grazie al riscatto inatteso regalato da una possibilità che vuole a tutti i costi trascenderla, schivando, d’incontro si potrebbe dire, le risacche infette del poeticismo (“Nudo nuoto verso i sentieri galattici dell’Oceano Pacifico… Stanco, la fronte coperta di nebbia, giaccio steso sulla cresta di un’onda che rilascia la sua schiuma nel mare di corallo gettandomi sulle coste della Guinea… Naufragato su un arcipelago abitato da sirene, totem e vecchi stregoni, tra il vento che soffia e quell’attrazione stellare, dico a me stesso che la vera felicità si trova solo in un amore folle”), come dalla furia grezza ma non meno delicata che si incarica della sua rappresentazione (un morbido tappeto sonoro elettronico che oscilla dalle pulsazioni più nette di ritmi ballabili a dilatazioni aurorali care a taluni impressionismi di Sylvian, cinge a mo’ di membrana amniotica un’opera per evidenti ristrettezze girata con una camera digitale privilegiando primi piani e contati movimenti ma pure pronta a occhieggiare, in intermezzi sospesi tra silente passività e disincanto, gli angoli di una Parigi ritrosa a emergere da un buio pressoché uniforme o dai riflessi blu di un ambiente chiuso o ancora da quelli dorati di un sottopasso), nel tentativo, fragile ma per la sua speciale natura rigoroso, in un mondo in cui ci si bacia “per vincere una scommessa”, di opporre alla brama quantitativa e al torpore dei sensi – e proprio in limine, au bout de la nuit, come diceva qualcuno – una trasognata, platonica e tenera dichiarazione d’amore, provando a ignorare il controcanto avido della sua promessa: “Spazio… Dovremmo spegnerle, le città e tornare all’oscurità. Questo sarebbe progresso”.
Alessandro D’Orazio
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