Conversation
Sarò lo zio di Tony Soprano in The Many Saints of Newark. Conversazione con Alessandro Nivola protagonista de L’arte della difesa personale
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5 anni agoon
Dickie Moltisanti, lo zio di Tony Soprano The Many Saints of Newark, prequel della serie I Soprano
In attesa di vederlo nel ruolo della vita, quello di Dickie Moltisanti, lo zio di Tony Soprano in The Many Saints of Newark, sorta di prequel della serie I Soprano, Alessandro Nivola è un singolare maestro di Karate alle prese con un contesto da commedia dell’assurdo ne L’arte della difesa personale di Riley Stearns. Cresciuto a fianco delle grandi star hollywoodiane del calibro di John Travolta, Christian Bale e Nic Cage e diretto, tra gli atri, da registi come David O. Russell, Nicolas Winding Refn e Sebastian Lello, Alessandro Nivola è pronto a spiccare il volo grazie a una versatilità che gli permette di interpretare sfumature opposte della stessa personalità.
La tua versatilità ti ha permesso di lavorare con giovani talenti quali Riley Stearns, regista de L’arte della difesa personale, come pure con alcune delle più grandi star hollywoodiane: mi vengono in mente John Travolta e Nic Cage. Pensando al rapporto tra pubblico e attore, volevo chiederti quanto è importante in termini di libertà creativa dovere corrispondere all’immaginario dello spettatore? A volte penso possa essere una gabbia.
Non ho mai dato troppo peso alle aspettative o ai pregiudizi del pubblico su di me. Da un ruolo all’altro ho cambiato così tante volte aspetto da diventare irriconoscibile. Questo ha reso difficile per lo spettatore identificarmi con un certo tipo di personaggio. Si è trattato allo stesso tempo di una benedizione e di una sciagura perché per me ha significato meno notorietà ma anche maggiore libertà. The Many Saints of Newark (prequel de I Soprano diretto da Alan Taylor e scritto da David Chase, ideatore della serie, ndr) è stata la mia prima volta da protagonista in una grande produzione Hollywoodiana, quindi forse in futuro sarà quello il ruolo a cui il pubblico mi assocerà. Per il momento il rispetto dei miei colleghi mi ha dato l’opportunità di interpretare una vasta gamma di personaggi e di lavorare con molti dei migliori registi. Di questo ne sono orgoglioso.
Il cinema di Refn
In Neon Demon entri in scena in una sequenza che riassume il cinema di Refn, algido e allo stesso tempo passionale e distante. In tale contesto, il tuo personaggio riesce a coprire una diversificata gamma di emozioni. Vorrei sapere qualcosa su questo aspetto, oltre a domandarti come ti sei trovato a lavorare su un tipo di recitazione antinaturalistica, com’è quella richiesta agli attori dal regista danese?
Come attore devi capire in che tipo di film sei. Qual è lo stile della narrazione, quale il ritmo e la sensibilità del regista e come tutto apparirà sullo schermo. Refn ha uno stile molto particolare, direi spiccato, e avendo in mente Drive sapevo in quale mondo mi sarei trovavo. A volte recitare in contesti che non sono naturalistici può darti più libertà e divertimento. Con lui abbiamo parlato molto del mio personaggio. Io ero praticamente una parodia dello stilista di moda, Tom Ford.
La mia vita ortodossa per recitare in Disobedience
A proposito di versatilità, in Disobedience di Sebastian Lello impersoni David Kuperman, il futuro rabbino della comunità ebreo ortodossa. Anche in questo caso hai lavorato con un regista fuori dagli schemi, ma un po’ più classico nella forma cinematografica. Penso che per te una delle sfide sia stata quella di rendere il tormento interiore del personaggio e di lasciare fino all’ultimo in sospeso quale siano la tue reali intenzioni nei confronti di Rachel Weisz e Rachel Mc Adams.
Quello che ho osservato in questo ruolo è come esso fosse sorprendentemente empatico, sebbene io sono l’antagonista dei personaggi di Weisz e Mc Adams. Per giunta in un film con meno sfumature emotive. David è una brava persona che si ritrova in situazioni impossibili. Preparare quel ruolo è stata per me una delle esperienze più affascinanti. Ho avuto molti mesi per farlo e sono diventato intimo amico di una famiglia ortodossa. Era un periodo in cui ero emotivamente vulnerabile perché mio padre stava morendo di cancro e quindi dentro di me c’erano sentimenti contrastanti.
Il ruolo di Sensei ne L’arte della difesa personale ti si confà alla perfezione. Di lui non conosciamo le reali intenzioni e cioè se vuole aiutare il personaggio di Jesse Eisenberg o cerca solo di ingannarlo. Questo per dire che la reticenza e il non detto mi sembrano in generale la cifra distintiva delle tue performance.
Quando dici “reticenza” presumo tu voglia dire understatement. Forse questo è vero. La peculiarità de L’arte della difesa personale era che nonostante l’assurdità del contesto e dello stile bisognava interpretarlo come se ogni situazione fosse vera. Dovevo credere a quanto dicevo anche se si trattava di assurdità. Penso che Sensei sia molto simile al personaggio di Jesse. Prima di trovare un’arena dove poter imporsi come un vero e proprio bullo, anche lui era una persona non a proprio agio nella società; forse è anche gay. Quello che vediamo nel film è il modo che ha trovato per sentirsi forte.
Prima e dopo #ME TOO
Riley Stearn porta all’estremo quelle che di norma sono le caratteristiche dei tuoi personaggi e cioè lo scarto tra la fisicità tipica di una persona normale e un viso su cui si può arrivare a leggere la ferocia di un possibile aguzzino.
Riley cerca senza dubbio il contrasto presente in chi è capace di unire gesti di estrema brutalità alla noiosità dei lavori più mondani, come possono esserlo quello di “un piccolo imprenditore”: ovvero passare l’aspirapolvere, pulire il bagno, cambiare il distributore dell’acqua. Come attore ho amato l’opportunità di sembrare un certo tipo persona per poi passare al suo esatto opposto.
Nella recensione del film ho scritto che le dinamiche presenti all’interno della scuola di Karate, il maschilismo settario e omofobo che la regola, altro non sono che una satira della società americana. Leggendo il copione, hai avuto la stessa impressione e hai dato all’interpretazione del tuo personaggio questo tipo di sfumatura?
Abbiamo fatto questo film poco prima dell’inizio del movimento #ME TOO. Eravamo consapevoli che stavamo prendendo in giro la mascolinità più tossica presente nel nostro paese, ma non sapevamo quanto sarebbe diventata importante nelle discussioni di quel periodo. Credo che Riley lo abbia scritto per motivi personali e, dunque, per dare espressione comica ai propri sentimenti di disagio sociale. Il testo ha poi assunto una maggiore rilevanza politica a causa di ciò che stava accadendo nel mondo.
Senza stabilire un confronto tra L’arte della difesa personale e Banality of Evil di Hanna Arendt, ma solo prendendolo come riferimento, mi sembra che questa sia la chiave del film. Il regista e voi attori esaltate il concetto di banalità del male attraverso la presenza di un doppio registro, continuamente in bilico tra dramma e commedia, tragedia e grottesco.
Se a te piace questo paragone sono d’accordo con te!
Partendo da L’arte della difesa personale e considerando l’eterogeneità della tua filmografia, volevo chiederti se hai un tuo metodo nella costruzione del personaggio e, se sì, come funziona? Nel processo di identificazione quanto c’è di reale e quanto di immaginario?
Non ho davvero un processo logico per arrivare a costruire un personaggio. Ogni volta è diverso. Presto molta attenzione alla mia voce. A come parlo, al ritmo delle mie parole, ai dettagli del mio accento. Questo tende a influenzare il resto della mia fisicità e, in definitiva, il modo in cui penso e sento. Spesso mi concentro su una persona reale. Posso averla incontrata o conosciuta oppure pescata in un’intervista su YouTube. Una volta scelta la copiavo. Anche mio padre era un ottimo imitatore ed era bravo a riuscirci partendo dal loro modo di parlare. Dunque, inizio sempre con un’imitazione di una persona reale e poi lascio che si evolva quando la applico alle parole del personaggio che sto interpretando. Ma faccio anche un milione di altre cose – leggo, ascolto musica, incontro persone, guardo altri film -, qualsiasi cosa mi possa fornire delle idee. Non penso ad altro durante il periodo di preparazione. Molto spesso faccio dei sogni su questo e mi sveglio con una nuova ispirazione.
Recitare in America
In Italia gli attori mi dicono di rimpiangere il modo di lavorare dei colleghi americani. A loro dire, il vostro sistema cinematografico permette di esercitarsi maggiormente sul personaggio e, dunque, di avere più tempo per approfondirne i diversi aspetti. Senti di poter dire che è così anche per te?
Non sono sicuro di cosa loro intendano. Certamente, più tempo hai per prepararti, migliore sarà la tua performance, ma è altrettanto raro che gli attori americani abbiano molto tempo per farlo, a meno che tu non sia Brad Pitt e il film venga costruito intorno a te. Molto spesso vieni scelto poche settimane prima dell’inizio delle riprese. Ho avuto solo due settimane per prepararmi a recitare ne L’arte della difesa personale e questo includeva anche l’acquisizione di alcune mosse di karate! Recentemente mi sono stati offerti un paio di ruoli con molti mesi di anticipo e questo è stato un gran lusso. Ho avuto a disposizione quattro mesi per Disobedience (ci è voluto così tanto solo per far crescere la barba!) e sei per The Many Saints of Newark. Considero queste due performance come le mie migliori, il che è dovuto al fatto di avere avuto il tempo necessario per prepararle. Non si tratta di una cosa legata al fare: è che nel corso di molte settimane e mesi si arriva a capire meglio la storia e il personaggio solo perché è sempre nella tua testa. Quando pensi a qualcosa tutto il giorno e poi vai a dormire riflettendo su questo, ti svegli e ci pensi ancora per mesi e mesi. Diventa come la meditazione; non si può fare a meno di fare scoperte anche senza provare. Questo è il lusso del tempo.
Causa Coronavirus, nel cinema italiano si è molto discusso sulla mancanza di un sistema capace di proteggere le varie figure professionali che lavorano al suo interno. Molti attori, non potendo guadagnare per la chiusura dei set, denunciano la mancanza di coperture salariali. So che negli Stati Uniti la vostra associazione è in grado di far sentire la propria voce per quanto riguarda diritti e garanzie.
Nessuno si è messo in contatto con me per questi scopi. Stiamo tutti in attesa di scoprire quando sarà sicuro tornare al lavoro e tutti speriamo che succeda presto. La maggior parte dei produttori con cui ho parlato sta vagamente pianificando di ricominciare in autunno, ma tutto si basa sul convincere le compagnie di assicurazione a impegnarsi in un film, assumendosi il rischio della chiusura nel caso in cui qualcuno si ammali. Ogni giorno ci sono nuove informazioni e i modelli cambiano. Nessuno sa nulla per certo.
The Many Saints of Newark
The Many Saints of Newark è un film molto atteso. Diretto da Alan Taylor e scritto da David Chase – il creatore dei Soprano -, è quasi un prequel della serie in questione e tu ne sei il protagonista nel ruolo di Dickey Moltisanti, lo zio di Tony Soprano. Penso che nel creare il personaggio tu abbia dovuto confrontarti con l’immaginario della fiction. Oltre a questo, ti chiedo quanto hanno aiutato le tue origini italiane nell’interpretazione del protagonista?
David Chase è stato molto intelligente perché ha scelto di raccontare una storia originale sul giovane Tony Soprano attraverso un personaggio di cui si parlava solo nella serie televisiva. Dickey Moltisanti aveva una fama leggendaria per il modo in cui è stato descritto ne I Soprano, ma era morto prima dell’inizio della storia. Ciò ha permesso al film e alla mia interpretazione di esistere senza essere oppressi da un personaggio preesistente. Mi sono sentito completamente libero di inventare Dickie. E sì, è stata davvero la prima volta in cui ho avuto modo di scavare e di capire la storia della mia famiglia. Girare il film mi ha dato una nuova comprensione dell’esperienza di mio padre come italiano cresciuto in America. Essere suo figlio mi ha regalato un istinto per il ruolo che altrimenti non avrei avuto. Dickie ha tutti i colori e le sfumature. È affascinante, spaventoso, divertente, romantico e, per finire, tragico. Il miglior ruolo che ho avuto!
Quali sono i tuoi attori di riferimento?
Robert Duvall, Robert DeNiro, Spencer Tracey, Marlon Brando, Gene Hackman, Christian Bale, Daniel Day-Lewis, Sean Penn. Pur scomparendo all’interno dei propri personaggi, si tratta di attori capaci di richiamare così tanto la nostra attenzione da diventare delle stars su cui costruire un film.
Parlando di film invece cosa ti piace?
Mi piace tutto a patto che sia bello, dunque la maggior parte dei film degli anni ‘70. Toro scatenato è il film migliore che sia mai stato fatto. Amo anche le commedia con Will Ferrel o Sacha Baron Cohen. Step Brothers di Adam McKay è una delle mie favorite.
Per la traduzione dall’inglese si ringrazia Cristina Vardanega