Ogni volta che si esce da una sala cinematografica, il primo pensiero che sfiora lo spettatore è relativo alla storia appena conosciuta. È solo il primo pensiero, poi confluiscono alla mente anche le capacità attoriali dei protagonisti, oppure la raffinatezza della fotografia, altri aspetti che connotano la ‘bellezza’ di un film.
Come in un coro, le voci sono diverse ma tutte si amalgamano al punto da sembrare un solo suono. Ma quali sono le fondamenta di questa meravigliosa impalcatura? La risposta è quasi automatica. La storia. Senza una storia da raccontare non c’è nulla, senza una storia la possibilità di meravigliare sparisce, anzi non c’è proprio la necessità e l’opportunità di creare un’illusione che duri un paio di ore. Riflettevo proprio su questo fondamentale ingrediente, su quali sono i protagonisti della storia, come questi ci vengono raccontati e quanto riescano a coinvolgere gli spettatori nelle loro vite.
Lo sceneggiatore, come Michelangelo, è chiamato a dare dimensione ai suoi personaggi, fargli scorrere il sangue nelle vene, donargli pensieri alti o bassi, assecondarne i vizi e le virtù. Questo lavoro certosino nasconde delle difficoltà che non saltano subito alla mente. Un personaggio può diventare un nemico per lo sceneggiatore più inesperto. Se prendiamo come esempio uno dei capolavori di Sidney Lumet, L’uomo del banco dei pegni (1964), il protagonista Sol Nazerman è umanamente un uomo orribile, senza sentimento, emozione, pietà. Come ci si può affezionare a quest’uomo così detestabile? Partiamo dal presupposto che il film è tratto dal romanzo The Pawnbroker di Edward Lewis Wallant, gli sceneggiatori Morton Fine e David Friedkin, con il supporto del registra e dello straordinario attore Rod Steiger, ingaggiato per il ruolo di Nazerman, si sono trovati a dover dare dimensione e corpo ai personaggi e dotarli anche della parola, senza perdere mai l’obiettivo di ciò che si voleva raccontare.
La storia ha un protagonista, l’uomo del banco dei pegni, Sol Nazerman, ex insegnante scampato all’Olocausto che è costato la vita a moglie e figlia, emigra negli Stati Uniti e per vivere gestisce un banco dei pegni ad Harlem per conto di un piccolo boss locale. Il professor Nazerman assume un giovane portoricano come aiutante, Jesus Ortiz. Intorno a loro alcuni personaggi secondari.
Sol Nazerman è un protagonista scomodo. La sua personalità è rinchiusa in una prigione emotiva, questo lo spinge a rifiutare istintivamente l’umanità, in particolar modo, quella che gravita nel suo negozio, fatta di miseria e dolore, a cui contrappone un atteggiamento algido che non ci fa avvicinare, non riusciamo neanche a provare un sentimento nei suoi confronti. Difficile che il professor Nazerman possa essere amato, ha solo una possibilità, che gli sceneggiatori ci forniscano dei dettagli del suo animo profondo, proprio attraverso il rapporto con quell’umanità tanto distanziata. Pian piano il protagonista prende coscienza della sua misera condizione, quasi si scuotesse da un torpore soporifero, fino al culmine della presa di coscienza che coincide con la morte violenta del suo aiutante. Il protagonista ha l’ennesimo faccia a faccia con la morte, ma ancora una volta è qualcun altro a pagare il prezzo. Ora ci rendiamo conto di aver abbracciato il vecchio professore e di provare dolore per la sua condizione, perché comprendiamo che il suo passato ha creato una profonda ferita, incolmabile, anche il tentativo di provare dolore per sentirsi vivo, lo comprendiamo e ci consente di capire l’estrema fragilità di un personaggio che all’inizio detestavamo. Il miracolo è fatto. Senza che ce ne accorgiamo, così come il protagonista, anche noi subiamo un cambiamento e ci ritroviamo alla fine un po’ diversi.
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