Un quadro. Sembra un quadro. Questa la reazione immediata che spesso ci si trova a esclamare per l’impatto da cui si è investiti durante la visione di Tales from the Loop, la serie presente su Amazon Prime, nata dall’ idea di Matt Reeves (Cloverfield, Il Pianeta delle scimmie) affidata allo showrunner Nathalien Halpern, e ispirata dalle tavole dell’artista svedese Simon Stalenhag.
Dove per impatto non s’intende solo la suggestione visiva data da una magnifica fotografia che, pur muovendo dalla riproduzione fedele al millesimo di tavole distopiche va ben oltre la staticità del frame, ma l’intera gamma di codici scelti, dal ritmo alle musiche, per fare col linguaggio filmico ciò che un quadro da solo forse non potrebbe mai fare, ma che da solo può fare solo un quadro.
Tales from the loop è una delle serie più squisitamente cinematografiche di questo strano 2020, una scommessa vinta, una sfida che ne fa un sui generis difficile da catalogare, per quanto ufficialmente rientrerebbe nella categoria Sci-Fi.
Sfere di metallo arrugginito abbandonate in mezzo a un campi innevati, torri altissime che si stagliano nel cielo, strane mezzelune illuminate sopra le case, robot giganti ormai dismessi che sembrano avere un anima rispecchiata dai bambini che li stanno guardando.
Le tavole di Stalenhag sono fatte di elementi avveniristici appartenenti a un futuro già vecchio che potrebbe essere il nostro recente passato, come suggeriscono i modelli di auto e furgoni e gli elementi di design tipici dei primi anni 80.
Un’atmofera distopica e nostalgica allo stesso tempo, calzata come un guanto da ognuno degli otto episodi della serie, anomala anche nel suo essere antologica, avendo ogni episodio la sua propria autonomia narrativa e filmica, ma tutti intimamente legati fra loro dalle dinamiche dei personaggi che di volta in volta rivestono il ruolo di protagonisti.
Ma sopratutto, profondamente e misteriosamente legati a triplo filo con quella cosa sottoterra che sembra appartenere al sopranaturale, denominatore comune di otto storie diverse della cui presenza sono tutti consapevoli , un sole nero, una specie di eclissi sotterranea attorno al quale si è sviluppato un laboratorio di Fisica nella cittadina di Mercer , Ohio:
Il Loop, dove “si cerca di rendere possibile l’impossibile”.
L’apertura del primo episodio è affidata alla voce e al primo piano paterno ma destabilizzante di un attore del calibro di Jonhatan Pryce (Brazil, I due Papi, per quest’ultimo candidato all’Oscar come miglior attore), nei panni di Russ Willard, che in pieno stile ”Twilight Zone” introduce lo spettatore al racconto di una realtà nella quale dovrà lasciare da parte molti dei suoi punti di riferimento, primo fra tutti: il tempo e il suo scorrere come tutti lo conosciamo.
Ritroveremo Jonathan Pryce come protagonista del quarto episodio, in un’interpretazione difficile da dimenticare.
La regia del primo episodio è affidata a Mark Romanek(One hour photo) , che figura anche tra i produttori esecutivi insieme a Reeves e Halpern, e subito saltano agli occhi i tratti distintivi che caratterizzano tutta la serie pur avendo ogni episodio un regista diverso.
La qualità è quella dei film di alto spessore, finezza stilistica e cura di dettagli impressionano da subito anche il più distratto degli spettatori.
La narrazione è consegnata a un ritmo lento, intimista e riflessivo, sottolineato magistralmente nelle musiche dal genio compositivo di Philip Glass e di Paul Leonard-Morgan, capaci di creare in ogni scena la tensione drammatica necessaria a far parlare le immagini, gli sguardi, il lento movimento che muove un oggetto, la luce o la mera vicinanza fra due persone.
Diversi momenti di particolare lirismo e introspezione quasi spirituale, rimandano alla lezione di grandi maestri come Tarkowsky, Wenders e Inarritu.
In Tales from the loop il registro dialogico è spesso ridotto all’osso, o utilizzato come raccordo per un racconto fondato su immagini, ritmo, luce, sonoro, musica, movimenti di macchina.
Molto efficace la fotografia, che non solo ricrea fedelmente la distopia nelle tavole dell’artista svedese come fossero quadri (realizzate in realtà al computer con una penna grafica) cui catturare l’anima, ma sceglie spesso il dettaglio immediatamente evocativo nel riflesso di un volto su un vetro illuminato dal sole, in un’ emozione catturata dallo specchietto di un’auto in retromarcia, o una mano che stringe qualcosa. Elementi presenti in varia misura in ogni episodio, in particolare subito evidenti nel primo diretto da Romanek che da collaudato regista di spot televisivi, quanto a dettagli dimostra tutta la padronanza del mezzo.
Da notare come la luce e il colore seguano, attraverso la serie, il tema centrale dell’episodio e lo stesso status emotivo della scena. Moltissime scene sono girate, in penombra, all’alba o al crepuscolo, in quella che i fotografi chiamano “ora blu”.
Nel primo episodio in cui lo spettatore viene a conoscenza della realtà del Loop, attraverso gli occhi di due talentuosissimi bambini, è inverno e domina la luce fredda e abbagliante della neve, ma i momenti più introspettivi hanno i colori del lume di candela.
Ogni episodio è affidato a un regista diverso, altra particolarità di una serie antologica “a modo suo”, l’ultimo episodio vede dietro la macchina da presa Jodie Foster, che già si era misurata con la regia di singoli episodi in serie importanti come Black Mirror, House of Cards, Orange is the New Black.
Il cast è di tutto rispetto: oltre a un cavallo di razza come Jonathan Pryce, spiccano fra tutti Rebecca Hall(candidata miglior attrice al Golden Globe per Vicky Cristina Barcellona di Woody Allen) e Jane Alexander (quattro volte candidata all’Oscar tra cui Kramer contro Kramer e tutti gli uomini del Presidente). Meritano una menzione particolare i due bambini Duncan Joiner (Cole) e la bravissima Abby Rider Fortson (Loretta) che molti ricorderanno come Cassie in Ant-Man.
Se il tempo è il cardine narrativo su cui si sviluppa l’intreccio della serie, le “chiavi” attraverso cui i singoli personaggi entrano in contatto coi poteri del Loop sono i resti del laboratorio sperimentale, sfere, robottoni, radio, tubi, interruttori; componenti elettronici del passato e cigolanti mastodonti metallici di un futuro arrugginito. Simboli per l’accesso alla vera sfida per la quale i creatori di Tales of the loop hanno scelto strumenti narrativi così inusuali: ogni episodio è una storia e un percorso in cui il protagonista, che magari abbiamo solo intravisto in un episodio precedente, trova per caso la chiave per un suo intimo desiderio, per un sogno adolescenziale, per ritrovare qualcuno da cui è stato abbandonato, per non perdere qualcuno che sta per andarsene.
E ogni episodio, in qualche modo, ha a che fare col tempo e con le sue diverse accezioni e percezioni.
Il tempo sfalsato, il tempo intaccato, che inevitabilmente finisce per sovvertire le leggi dello spazio, a volte in modo impercettibile come un fischio in una stanza, altre facendo crollare al contrario il soffitto di una casa capovolgendo la gravità.
Chi non ha mai fantasticato almeno una volta nella vita, di fermare il tempo, le persone, l’acqua dei fiumi, e poter disporre del mondo come meglio crede?
Chi non ha mai desiderato sapere con paura, quanto gli resta da vivere?
Chi non ha mai pensato come sarebbe incontrare se stessi se fosse possibile?
Chi non ha mai voluto avere la forza di un gigante per proteggere chi ama?
Tales of the Loop da corpo e anima a queste e altre domande che fanno parte di ognuno di noi, vive e vulcaniche nell’anima di un bambino, esplorative e ribelli in quella di un adolescente, razionali e aggrappate ai ricordi in un adulto.
L’impianto narrativo è solo apparentemente fondato sulla distopia e sugli elementi Sci-Fi; la sfida vinta di Tales of the Loop è aver usato le impressioni di quadri digitali per costruirci intorno le vicende surreali di una famiglia e di una piccola comunità, in modo da avere tante tipizzazioni dell’esperienza umana quanti sono i personaggi. E su di esse rappresentare il percorso verso se stessi, il proprio tempo, i propri desideri e ricordi, dal bambino all’anziano, col pretesto di un nucleo nero che sta sottoterra che sembra venire da un altro mondo, studiato accanitamente dagli uomini per carpirne i segreti e rendere “possibile l’impossibile” per usare le parole di Russ Willard.
Lo spettatore è quasi costretto a identificarsi col bambino che a un certo punto chiede “dove si va a finire quando si muore”? O col ragazzo che vorrebbe essere nei panni di un altro, magari un amico.
La scommessa per gli autori è quella di portare lo spettatore allo stesso tipo di percorso, attraverso la narrazione, ed è piuttosto ardita per una serie tv.
Significative in questo senso le parole di Simon Stalenhag dalla cui intuizione artistica è partito tutto:
“Dal punto di vista dell’artista, Tales from the Loop riguarda l’essere bambini, la crescita, e il capire che gli adulti non hanno idea di cosa succeda”
Ma si può, e a volte si deve, essere disposti a tornare bambini anche a 70 anni, o a diventare grandi prima del tempo per poi non riuscire più a tornare indietro. Magari avendo il coraggio di entrare dentro una sfera arrugginita.
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