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Hollywood, la nuova serie firmata da Ryan Murphy, approda su Netflix

Tra compromessi, ambizioni e sogni, Hollywood arriva su Netflix e riporta in auge il nome di Ryan Murphy, che si imbarca in un lavoro di riscrittura simile all'ultimo Tarantino e dal sapore di favola

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Si apre il sipario, calano le luci e si illumina il grande schermo. Siamo a Hollywood, negli anni che seguono la Grande Guerra, in parte di quella che è chiamata la Golden Age. La scena iniziale della nuova miniserie targata Netflix esibisce ciò che sarà un po’ il fulcro intorno a cui l’intera narrazione ruoterà, e che sarà ripreso nel settimo e ultimo episodio, come a chiudere il cerchio, prima del vero e proprio finale.

La recitazione è un mestiere che va coltivato

L’area di fronte ai cancelli degli Studios appare gremita di aspiranti attori, comparse, figuranti o semplici curiosi, mentre si attende l’arrivo di quelli – simboleggiati dalla “vecchia gorgone” in rosso – che potrebbero segnare il destino di alcuni di loro.

Sin dalle prime scene viene sottolineata l’importanza di fattori quali la preparazione, la terminologia, l’impegno, nell’intraprendere la strada della recitazione. Definita un mestiere, oltre che un’arte, essa ha bisogno di un sostegno che le dia forma e voce. Non è questione di sola magia, per raggiungere un simile livello sono necessarie basi solide, ricercate, non comuni. E, nel corso della narrazione, ciascuno dei personaggi ne andrà alla ricerca, in un modo o in un altro. Tra chi si appoggia a un mentore, chi a un compagno, chi a un estraneo del campo che si rivela infine ben più efficace, tutti arrivano a dare il meglio di loro stessi, trovando una verità interiore che gli permette di diventare attori con la A maiuscola.

In un ambiente come quello di Hollywood, soprattutto ai tempi di cui si parla nella serie, ci sono altri elementi ritenuti fondamentali, quasi imprescindibili: la bellezza in primis, fagocitata da trattamenti e allenamenti mirati, quindi gli agganci, senza i quali sarebbe praticamente impossibile entrare in un qualsiasi tipo di giro e per i quali si è costretti a scendere a più di un compromesso.

Hollywood e l’arte del compromesso

E proprio i compromessi caratterizzano la maggior parte, se non la totalità, delle personalità in gioco. Più o meno condivisibili che siano, deplorevoli o immorali, dietro di essi si celano desideri, ambizioni, bisogni che spingono per uscire e mettersi in mostra. Tenerli intrappolati non farebbe che peggiorare le cose, portando inevitabilmente a percorrere la strada del rimpianto, della frustrazione e della rivalsa contro chi non c’entra nulla e capita nel mezzo per sbaglio. Ne è un esempio Henry Willson, segnato per sempre dalla perdita del suo amato e dal non detto, a cui un sorprendente Jim Parsons dona un’ambiguità a tratti disturbante. A ciò si aggiunga il discorso sull’etnia di appartenza: ci sono ebrei, asiatici, afroamericani, relegati a figure di contorno, se fortunati, altrimenti a restare nell’ombra e dimenticare una volta per tutte le passioni che li muovono, i sogni nel cassetto, le storie da cui provengono e, ancora più grave, quei doni che solo i grandi artisti hanno ricevuto alla loro nascita.

Anna May Wong (Michelle Krusiec) assurge a simbolo di questo discorso, e accanto a lei si impongono Avis Amberg (Patti LuPone) e Camille Washington (Laura Harrier), tutte e tre meritevoli dei riconoscimenti finali. Il fatto che si scelga di parlare di tre donne, sebbene si avvistino anche personaggi maschili vittime di pregiudizi e razzismo, è dovuto all’importanza riservata alla questione femminile. Verrà “scomodata” addirittura Eleanor Roosevelt per l’occasione, che non nasconderà il suo disappunto per come la società sembri sul punto di tornare indietro, culturalmente e moralmente.

Il potere di Hollywood è quello di cambiare il mondo

Ecco allora che si inserisce un altro cruciale discorso, riguardante non solo la capacità, quanto soprattutto la responsabilità, del cinema, di riuscire a cambiare il mondo e modellarlo su un sistema giusto, meritocratico, probabilmente utopistico (allora come oggi, se si pensa anche al periodo che stiamo affrontando e al poco sostegno che la cultura sta ricevendo). Immaginando e raccontando qualcosa che in realtà non esiste, si può suggerire un modo diverso di intendere l’esistenza, di relazionarsi, di intraprendere la strada del progresso, a patto però di accettare la trasformazione.

Ryan Murphy e Ian Brennan compiono un’operazione rischiosa da un certo punto di vista, ma senza alcun dubbio molto romantica e personale. La scelta di mescolare personaggi realmente esistiti con quelli fittizi, inserendoli in situazioni che richiamano da vicino quanto accadeva all’epoca, ma cambiandone alla radice l’esito, conduce a un risultato bivalente.

Hollywood appare come un sogno non realizzato, frutto di una riscrittura – un po’ alla maniera del tarantiniano C’era una volta… – alla quale si devono un ribaltamento dei cliché, un happy ending sin troppo consolante e un messaggio di speranza che risuona più forte che mai. D’altro canto c’è chi non sarà convinto da questa vera e propria favola, vuoi perché non abbastanza realistica una simile anticipazione di tempi e temi, vuoi perché la patina che pervade l’intero progetto talvolta disturba e distacca. A tal proposito, si nota (e apprezza) una sorta di breve squarcio, in un intervallo che va dal quinto a parte del settimo episodio, nel quale emergono, con irruenza e verità, emozioni troppo a lungo soffocate dall’apparenza più superficiale e frivola. Una lode a parte la meritano invece i suggestivi titoli di testa, nei quali vediamo i protagonisti arrampicarsi sulla celebre scritta “Hollywood(land)”, a suggerire tutti quelli che saranno gli spunti di riflessione affrontati dalla serie.