Jack Cunningham era stato una promessa del basket: borsa di studio e promettente futuro come giocatore all’Università. Tutto questo viene però messo da parte per una vita “normale”. Passa il tempo e Jack, ora quarantenne, con un matrimonio fallito e la necessità di dover affrontare un lutto doloroso, annega i suoi dolori nell’alcool. Lavorando come manovale edile, ha ormai sostituito l’acqua con le birre e la vodka, che trasporta nel termos, anche al lavoro. Un giorno la scuola cattolica da lui frequentata da ragazzo lo chiama per allenare la loro piccola squadra composta da qualche valido elemento, ma senza ambizioni. Un insieme di ragazzi disillusi e afflitti da problemi che li deprimono e tolgono loro l’energia sufficiente per competere davvero. Ognuno di loro è come se fosse Jack, pieno di dilemmi e contrasti interiori, ciascuno alla deriva come lui e come lui alla ricerca di una seconda chance.
Jack si rivela un grande ascoltatore, molto più abile a comprendere l’intimo mondo di questi ragazzi e a cogliere la loro anima anziché scavare dentro il suo di Io, risalire all’origine del suo profondo disagio, trovarne le radici e strapparle. L’uomo trasforma in poco tempo la squadra, con rudezza e maniere forti, riuscendo ad ottenere per loro importanti. La sua caduta è invece sempre in discesa, non si risale per miracolo in cima e la favola può aspettare.
Tornare a vincere storia di una caduta
The Way Back, tradotto in Tornare a vincere, scritto da Bard Ingelsby e diretto da Gavin O’Connor (già con Affleck in The Accountant), presenta il classico schema della storia di una caduta e di una ricerca di riscatto, di una morte e di una rinascita. Il fondo viene raggiunto più di una volta, nell’abisso più buio della dipendenza, tra fumi di alcool, momenti di oblio e depressione. Lo sport è lo strumento per risalire la cima, per depurarsi in parte dalla frustrante sensazione di un fallimento che imprigiona, costringe e non dà modo di voler sul serio migliorare la propria condizione. Aiutare gli altri, rafforzarne lo spirito e la volontà, motivarne aspirazioni creando obiettivi risana in parte quella ferita e colma il vuoto che si annida nell’anima, ma è solo apparenza.
Il finale sorprende.
Una storia già vista molte volte sul grande schermo e in cui sembra anche quasi di vedere sprazzi delle reali vicende coniugali di Affleck (le dipendenze, la fine dolorosa del matrimonio favola con Jennifer Garner, il centro di riabilitazione), eppure in ogni ‘prevedibile’ passaggio ci sorprendiamo a non trovare quella facile retorica che ci si potrebbe aspettare e il film si guarda con piacere e con qualche momento anche di commozione.
Jack risulta alla fine un personaggio per cui si finisce comunque per fare il tifo, proprio perché negativo in modo consapevole, perché troppo solo dentro e annegato nei rimpianti e perché non cerca giustificazioni per la sua discesa verso l’autodistruzione. È tutto molto consapevole e lontano da autocompiacimento, come rappresentato alla luce di un inevitabile destino finale di espiazione attraverso un percorso che sorprende, sviandoci di colpo dal prevedibile plot.
Ben Affleck, molto in parte, appare totalmente immedesimato in un ruolo davvero suo, visibilmente toccato dalla sua di vita, dai suoi di fallimenti e da una personale caduta da cui coraggiosamente cerca di risollevarsi.
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